IL FILO DI ARIANNA di TRIPLAG..il filo per non perdersi nella realtà


*lotta alla mafia: frenano le confische
martedì, febbraio 26, 2008, 7:48 PM
Filed under: cronaca
da dirittiglobali.it  

  

NEWS (criminalità, controllo & sicurezza)

17 – 04 – 2007

Crollano le confische dei beni dei mafiosi. ”Serve un’Agenzia”

Studio del Cnel sui beni confiscati alle mafie e sulle difficoltà nell’attribuzione alle associazioni e alle imprese. E il Demanio denuncia in Parlamento: nel 2006 solo 216 immobili sequestrati alle cosche contro gli oltre mille del 2001

ROMA – A undici anni dal varo della legge 109 sulla confisca dei beni mafiosi è arrivato il momento di tracciare un bilancio e probabilmente di avviare una riforma della legislazione. E’ il giudizio che è emerso oggi durante la presentazione pubblica di uno studio del Cnel, il Comitato nazionale dell’economia e del lavoro, sullo stato della confisca dei beni mobili e immobili sequestrati alle cosche mafiose. La legge del 1996 ha avuto grandi meriti e ha aperto una strada che in Italia non era mai stata battuta. Ci sono però tanti punti su cui intervenire e questioni da risolvere in tempi brevi. Dal convegno – che è stato coordinato da Antonio Marzano (presidente del Cnel), Paolo Annibaldi e Marcello Tocco, coordinatori dell’Osservatorio economico sulla criminalità del Cnel – è emersa, tra le altre una priorità: quella di avviare da subito le procedure per l’istituzione di una struttura preposta esclusivamente alla confisca dei beni mafiosi e alla loro attribuzione alle forze economiche e sociali sane del paese. Tutti gli intervenuti alla conferenza del Cnel – gli ospiti più illustri erano don Luigi Ciotti, presidente nazionale di Libera (Associazione delle associazioni contro la mafia), Gianfrando Donadio, magistrato della Dia e Francesco Forgione, presidente della Commissione Parlamentare Antimafia – si sono trovati d’accordo su un punto: il Demanio non regge più il grande carico di lavoro. Ora serve un’Agenzia. “Chiamiamola come ci pare, ma serve una istituzione che si occupi esclusivamente della confisca e che poi segua tutto il processo fino all’attribuzione dei beni”, ha detto don Ciotti, il quale ha posto poi anche una serie di problemi collaterali che il governo e le istituzioni dovrebbe affrontare subito. Tra le questioni emergenti: la trasparenza nel sistema di assegnazione pubblica dei beni confiscati alle mafie, l’attribuzione a Banca Etica dei fondi finanziari confiscati alla criminalità e da rimmettere sul circuito dell’economia virtuosa, la gestione delle drammatiche crisi sociali ed economiche derivanti dalla confisca delle aziende gestite da mafiosi e lasciate morire (vedi lancio successivo).

 

Le questioni più urgenti sono comunque legate alle lungaggini e alle insufficienze strutturali che si registrano oggi. Il coordinatore Marcello Tocco ha spiegato per esempio che il Demanio non riesce più a svolgere tutto il carico di lavoro e gli effetti dell’ingorgo si vedono. Tra l’altro sempre oggi il direttore del Demanio, Elisabetta Spitz è andata in Parlamento a riferire delle difficoltà della struttura da lei diretta. Per rendersi conto della situazione basta vedere le cifre. Tocco ha ricordato infatti che nel 2001 lo Stato aveva sequestrato 1.071 beni alla mafia. Nel 2005 i sequestri erano scesi a 166 per arrivare a 107 lo scorso anno, nel 2006. Stiamo assistendo quindi a un vero e proprio crollo. L’idea dell’Agenzia specializzata in sequestri con personale sufficiente e soprattutto molto professionalizzato nasce dunque da questa situazione critica.

 

D’accordo sulla necessità di intervenire al più presto Francesco Forgione, presidente della Commissione Antimafia. “Bisogna colpire la vera natura del crimine organizzato – ha detto Forgione al Cnel – e la sua vera natura è sicuramente quella economico-finanziaria. Uno dei problemi più urgenti – anche per il presidente della Commissione – è quello di snellire tutte le procedure. Oggi, tra la confisca del bene e la sua destinazione ad uso sociale, possono passare tra i 10 e i 15 anni. In questo lasso di tempo è molto probabile che i beni di deteriorino. Molto secco il commento finale del presidente: “Se continuiamo così, facciamo un regalo alla mafia”. E anche per Forgione un tema da mettere subito all’ordine del giorno riguarda il destino delle aziende sequestrate alla mafia. Solo a Napoli, di 300 aziende sequestrate alla Camorra, la maggior parte sono morte, con conseguente aumento della disoccupazione e della disperazione per centinaia di famiglie di operai. La Commissione Parlamentare acquisisce comunque il documento del Cnel e spingerà con il governo per il varo di un disegno di legge che metta mano alla materia in modo complessivo. Deve anche finire lo scandalo delle ville sequestate ai mafiosi (come quella di “Sandokan”) dove i familiari occupano i locali per non cedere il bene allo Stato.

 

Insomma è arrivato il momento di dire “basta” con questo andazzo a barzelletta, ha confermato il presidente del Cnel, Antonio Marzano. Si deve cominciare a intervenire a mente fredda con la logica degli economisti, ha detto il presidente. Si devono cioè ridurre al minimo i vantaggi per la criminalità organizzata, aumentando al tempo stesso i costi per loro. Bisogna rendere antieconomico il crimine, oltre che aumentare le barriere morali che possono salvare molti giovani oggi tentati dalla mafia alle scorciatoie criminali. Bisognerà creare, sempre secondo Marzano, anche un Albo nazionale dei commissari aziendali in grado di prendere in mano le aziende sequestrate per non farle morire come succede oggi. E oggi – ha confermato il magistrato Donadio, sono gli stessi “tecnici” delle mafie (quelli in grado di muoversi nell’alta finanza tra titoli e derivati) che fanno scientificamente morire le aziende che lo Stato sta per sequestrare. 

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Dal 1996 sequestrati alle cosche 3.385 beni immobili e 116 aziende

Dall’anno del varo della legge sulla confisca dei beni mafiosi registrato un andamento crescente fino al 2000-2001, poi un vero e proprio crollo dal 2001 al 2006. Lunghi i tempi, soprattutto al Sud. Che fine fanno i soldi?

 

ROMA – Dal 1996, anno del varo della legge sulla confisca dei beni mafiosi, sono stati sequestrati alle cosche 3.385 beni immobili e 116 aziende con un andamento che è andato in crescendo fino al 2000-2001, ma che poi ha subito un vero e proprio crollo dal 2001 al 2006. Basta citare un dato: nel 2000, anno di picco dei sequestri dei beni mafiosi, sono stati sequestrati appunto 927 beni immobili. L’anno dopo sono stati 190 e nel 2003 sono stati sequestrati solo 48 beni immobili e due aziende. Nel 1996 le aziende sequestrate erano state 22. Sono i dati contenuti nel Rapporto del Cnel sul monitoraggio delle legge 109 del ’96 concernente appunto “disposizioni in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati”. Nel rapporto, oltre all’analisi regione per regione dell’andamento delle confische dei beni mafiosi, si studiano anche le destinazioni finali di questi beni e i tempi di attesa tra la confisca e la destinazione, tempi che in media variano da 5 a 10. I tempi di attesa più alti si riscontrano paradossalmente proprio nel sud del paese. Nel nord il 4% circa dei beni destinati ha tempi di attesa tra i 5 e i 10 anni. Nel sud la percentuale di beni destinati in attesa è pari all’85,3% del totale dei beni confiscati. Sempre nelle regioni del sud, laddove è più forte la presenza della criminalità organizzata, si riscontra anche il fenomeno dell’occupazione abusiva dei beni confiscati da parte delle famiglie stesse del mafioso proprietario a cui sono state confiscate. Molto indicativi (e drammatici) anche i dati sulle tipologie delle aziende sequestrate. Il 12% delle aziende che sono state sequestrate alla mafia sono risultate attive, il 29% inattive con patrimonio, il 23% in fallimento e il 19% chiuse. Don Luigi Ciotti, presidente di Libera, che oggi ha partecipato alla presentazione del Rapporto del Cnel, ha voluto sottolineare la drammaticità sociale della situazione che deriva dai sequestri. E’ necessario cioè per Ciotti offrire un’alternativa alle decine di operai padri di famiglia che da un giorno all’altro rimangono senza lavoro. Delle 801 aziende confiscate – ha detto don Ciotti – solo 39 sono alla fine risultate attive. Tutte le altre hanno chiuso e poi licenziato tutti i dipendenti. Si tratta, sempre secondo il presidente di Libera, di mettere in gioco la cooperazione migliore per creare possibilità alternative di lavoro per tutta questa gente che spesso, in preda alla disperazione, dice “era meglio la mafia che almeno ci dava lavoro”. Don Ciotti ha fatto l’esempio della Calcestruzzi che era di Provenzano e sui cui si è intervenuti con una cooperatica che ora ha rilanciato il ciclo degli inerti per ridare lavoro agli operai.

Un’altra questione molto importante riguarda il sequestro dei beni mobili, ovvero delle risorse finanziarie. Che fine fanno quei soldi? Una proposta di don Ciotti è quella di affidarli tutti a Banca Etica che poi li deve gestire secondo le normative. In ogni caso, tra queste proposte e quelle dell’Agenzia (vedi lancio precedente) bisogna fare presto. E’ necessario rilanciare un processo che come si vede dai dati sui sequestri sembra si sia inceppato. O quantomeno ingolfato.



*Iran: le Quote Azzurre per proteggere i maschi
martedì, febbraio 26, 2008, 7:35 PM
Filed under: esteri

da repubblica.it

Troppe laureate, l’Iran
vara le quote azzurre

di VANNA VANNUCCINI

 

<B>Troppe laureate, l'Iran<br>vara le quote azzurre</B>Studentesse e studenti universitari iraniani a Teheran

LE RAGAZZE sono il motore del cambiamento sociale in Iran, dice Shirin Ebadi, primo premio Nobel per la pace del mondo islamico che è diventata il simbolo del movimento femminista iraniano. Soprattutto dopo che il disincanto per la politica e le repressioni hanno disgregato il movimento studentesco, la lotta delle donne per la parità dei diritti è rimasta il segno più tangibile della resistenza al regime dei mullah.

Nemmeno il presidente Ahmadinejad è riuscito a rimandare le donne al focolare. Ci sono donne a Teheran che dirigono ospedali e giornali, che lavorano come ingegneri dei cantieri di costruzione, che sono a capo dei reparti femminili della polizia. Nonostante i giri di vite recenti sui codici di vestiario, le ragazze continuano a testare i limiti della libertà con giacchine sempre più corte, pantaloni sempre più stretti e foulard sempre più colorati. Un terzo delle studentesse va alle lezioni senza chador, indossando un semplice foulard, pur sapendo che il giorno che troveranno un impiego pubblico il chador sarà obbligatorio.

Soprattutto, il numero delle ragazze nelle università iraniane è salito continuamente negli ultimi anni.
Ventinove anni dopo la rivoluzione islamica le ragazze sono il 65 per cento degli studenti universitari. E ai temuti Konkur per l’ammissione alle università (tutte a numero chiuso) le ragazze sono ogni anno più del 60 per cento e i ragazzi meno del 40 per cento degli ammessi. Ce n’era abbastanza per allarmare il regime, che oggi ha deciso di fissare delle quote azzurre, in modo da assicurare la presenza di più maschi negli atenei.


Nei giorni scorsi una commissione parlamentare aveva presentato un rapporto in cui esprimeva la preoccupazione che il numero crescente di studentesse avrebbero creato nei prossimi anni un problema sul mercato del lavoro, che non può assorbire secondo la commissione un numero così grande di donne. Molti deputati conservatori che vorrebbero la divisione per sesso tra i medici (le donne medico a loro avviso dovrebbero riservare le loro prestazioni alle pazienti femmine) hanno visto un nuovo pericolo nella crescita delle donne medico. Lo stesso per quanto riguarda farmacisti e dentisti, tra i quali i laureati sono già al 60 per cento donne.

Paradossalmente, proprio l’obbligo del chador e della divisione tra sessi ha funzionato da lasciapassare per molte figlie di famiglie tradizionali e religiose, alle quali le famiglie non permettevano prima di uscire di casa per frequentare l’università e per lavorare in luoghi pubblici.

Secondo le statistiche del ministero per l’istruzione universitaria le donne erano il 37 per cento nel 1997, l’anno in cui fu eletto il presidente riformatore Khatami. È a lui che si deve l’inizio della liberalizzazione. Il governo Khatami decise di reinstaurare le donne nella carriera di giuriste (nel solo campo del diritto di famiglia), che dopo la rivoluzione era stata loro preclusa. Oggi ce ne sono un centinaio. Le studentesse ebbero il permesso di andare a studiare all’estero – fino ad allora un diritto riservato a quelle sposate.

Un parco riservato alle donne è stato aperto a Teheran dove le ragazze possono praticare tutti gli sport senza l’obbligo del chador. Le donne hanno avuto il permesso di lavorare come tassiste (in taxi riservati alle clienti di genere femminile). Le esigenze della vita moderna provocano in Iran contrapposizioni continue con le strutture patriarcali e le norme islamiche. Uno dei paradossi iraniani è infatti che un forte senso della tradizione si accompagna a una altrettanto forte fede nel progresso, nella scienza e nel sapere, che è condivisa da tutti i gruppi politici. Il disprezzo dei taliban afgani per il progresso è sconosciuto ai mullah.

Le nuove regole, che entreranno in vigore per il prossimo esame di ammissione in estate, prevedono che in ogni facoltà ci sarà una quota rosa e una quota azzurra del 30 per cento ciascuna. Solo il resto dei posti, cioè il 40 per cento, sarà lasciato alla libera competizione. “La legge garantisce in questo modo i maschi nelle facoltà dove le ragazze sono più numerose, come le scienze naturali, ma favorisce anche le donne là dove ce ne sono di meno, come le facoltà d’ingegneria e di scienze umane” ha detto il capo dell’Organizzazione dei konkur accademici cercando di relativizzare la portata della decisione.



*Bolzaneto nel G8: le violenze raccontate dai PM
lunedì, febbraio 25, 2008, 9:54 PM
Filed under: cronaca

da repubblica.it

“Umiliazioni, pestaggi, sputi
ecco l’inferno della Bolzaneto”

di MASSIMO CALANDRI

GENOVA – Qualcuno dovrà pure spiegare l’odio e la violenza, la barbarie, la crudeltà gratuita. L’accanimento. Gli insulti, le umiliazioni, le botte. I capelli tagliati a colpi di forbice, gli sputi, i volti marchiati, le dita spezzate. Qualcuno dovrà spiegare, ed assumersene le responsabilità.

Nella seconda udienza dedicata alla requisitoria del processo per le violenze e i soprusi nella caserma di Bolzaneto, i pubblici ministeri si sono concentrati sull’attendibilità dei testi. Spiegando che non furono solo le 209 vittime a raccontare nei dettagli l’orrore di quei tre giorni, ma che gli stessi imputati generali, funzionari di polizia, ufficiali dell’Arma, guardie carcerarie, poliziotti, carabinieri, medici hanno più o meno direttamente confermato quegli sconcertanti resoconti.

Vale allora la pena di riportare alla lettera una parte dell’intervento di Vittorio Ranieri Miniati, a nome anche dell’altro pm, Patrizia Petruzziello. Un breve elenco di fatti specifici accaduti nel “carcere del G8”. Una esemplare tessera del mosaico. Miniati cita ad esempio “le battute offensive e minacciose con riferimento alla morte di Carlo Giuliani o di alcuni motivi parafrasati a scopo di scherno”. “Per la giornata di venerdì, in particolare: il malore di Angelo Rossomando e quello di Karl Schreiter. Il taglio di capelli di Taline Ender e Saida Teresa Magana. Il capo spinto verso la tazza del water a Ester Percivati. Lo strappo della mano di Giuseppe Azzolina. le ustioni con sigaretta sul dorso del piede a Carlos manuel Otero Balado, percosso tra l’altro sui genitali con un grosso salame. Le percosse con lo stesso grosso salame sul collo di Pedro Chicarro Sanchez”.

“Per la giornata di sabato, in particolare: il malore di Katia Leone per lo spruzzo in cella di spray urticante. Il malore di Panagiotis Sideriatis, cui verrà riscontrata la rottura della milza. Il pestaggio di Mohammed Tabbach, persona con arto artificiale. Gli insulti a Massimiliano Amodio, per la sua bassa statura. Gli insulti razzisti a Francisco Alberto Anerdi per il colore della sua pelle. Le modalità vessatorie della traduzione di David Morozzi e Carlo Cuccomarino, che vengono legati insieme e le cui teste vengono fatte sbattere l’una contro l’altra”.

“Per la domenica, in particolare: il malore di Stefan Brauer in seguito allo spruzzo di spray urticanti, lasciato con un camice verde da sala operatoria al freddo. Il malore di Fabian Haldimann, che sviene in cella ove è costretto nella posizione vessatoria. L’etichettatura sulla guancia, a mo’ di marchio, per i ragazzi arrestati alla Diaz nel piazzale al momento dell’arrivo a Bolzaneto. La sofferenza di Anna Julia Kutschkau che a causa della rottura dei denti e della frattura della mascella non è neppure in grado di deglutire. Il disagio di Jens Herrrmann, che nella scuola Diaz per il terrore non è riuscito a trattenere le sue deiezioni e al quale non è consentito di lavarsi. La particolare foggia del cappellino imposto a Thorsten Meyer Hinrrichs: un cappellino rosso con la falce ed un pene al posto del martello, con cui è costretto a girare nel piazzale senza poterlo togliere”. Per chi lo avesse dimenticato, i responsabili di questi episodi sono uomini dello Stato. Quello che ci dovrebbero proteggere dai criminali.



*Le elezioni: corsa alle candidature. Dominano i sondaggi
domenica, febbraio 24, 2008, 9:53 PM
Filed under: politica

da repubblica .it

L’inseguitore accelera
l’inseguito perde colpi

di EUGENIO SCALFARI

IL 2 MARZO si concluderà l’inevitabile giostra delle candidature e delle alleanze e la campagna elettorale entrerà nel suo pieno, ma i suoi lineamenti sono già chiari e profilati: Berlusconi conduce nei sondaggi, Veltroni insegue accelerando il recupero. Per la prima volta in questa settimana il recupero dell’inseguitore ha prodotto un regresso nello “share” dell’inseguito. Se i sondaggi rispecchiassero l’effettiva realtà questa novità sarebbe della massima importanza; significherebbe infatti il profilarsi d’un deflusso dal Popolo della libertà verso il Partito democratico e quindi il dimezzamento aritmetico del distacco tra l’inseguito e l’inseguitore.

Sin d’ora comunque si va diffondendo nella pubblica opinione e nei “media” la sensazione del dinamismo di Veltroni e della staticità del suo avversario. In un paese bloccato da decenni che aspira a liberarsi dalle bende e a rinnovarsi, questa sensazione può tradursi in un capovolgimento di tutti i pronostici che fin qui sembravano certi: il Partito democratico, già ora, non ha più come obiettivo massimo quello di pareggiare al Senato, ma addirittura quello di vincere nelle elezioni per la Camera incassando così il premio di maggioranza che la legge elettorale prevede. Chi l’avrebbe mai immaginato appena un mese fa? Naturalmente questi ragionamenti simulano una realtà virtuale e vanno quindi presi con molta cautela.

* * *

I temi dell’economia mordono invece più da vicino la vita quotidiana dei cittadini, lavoratori, consumatori, famiglie, imprese e sono ormai balzati in primissima fila. I prezzi soprattutto perché è con essi che tutti abbiamo a che fare ogni giorno. E di conseguenza i salari e le retribuzioni. L’occupazione, la cui tenuta comincia a suscitare preoccupazioni. L’inflazione. Il livello ufficiale che registra una media si colloca in questo momento al 2,9 per cento, ma l’ultima notizia di due giorni fa indica nel 4,8 l’aumento dei prezzi relativi a generi di larga diffusione.


Non è una sorpresa, l’inflazione infatti è la peggiore delle imposte perché ha carattere regressivo, colpisce i redditi più bassi in misura nettamente maggiore di quelli più elevati, risparmia i ricchi e deruba i poveri, falcidia i percettori di redditi fissi (lavoratori dipendenti e pensionati) consentendo qualche recupero ai lavoratori autonomi, ai professionisti, ai settori che operano su mercati protetti rispetto alla concorrenza. Ecco, la situazione dell’economia occidentale e quindi anche dell’Europa e in particolare dell’Italia si trova a questo punto. Gli Usa sono in piena recessione.

L’Europa registra un sensibile rallentamento e l’Italia è il fanale di coda. Le previsioni delle agenzie internazionali danno il nostro prodotto interno lordo allo 0,7 per cento nell’anno in corso con una tendenza ad appiattirsi ancora.

In queste condizioni la politica economica dovrebbe reagire adottando misure anticicliche. La teoria suggerisce infatti che, quando la congiuntura rallenta e addirittura volge verso lo zero, la domanda venga sostenuta con acconci interventi di spesa. In questo senso si muovono i programmi presentati dai partiti nei giorni scorsi; le differenze riguardano le modalità ma non la sostanza. Tutti infatti hanno in animo di sostenere i salari, i giovani, le famiglie, gli investimenti in infrastrutture.

Il problema è quello della copertura finanziaria e reale di queste politiche: dove trovare le risorse necessarie? Dove concentrare lo sforzo? Come evitare ricaschi dannosi sull’inflazione? Come impedire contraccolpi sul deficit? Infine, a quanto deve ammontare il complesso dei provvedimenti di sostegno per esercitare un effetto sensibile sulla domanda interna e sulla crescita reale?

* * *

Comincio da quest’ultima domanda: a quanto ammontano le risorse da mobilitare per ottenere risultati apprezzabili? Direi: non meno di un punto del Pil, cioè in cifra tonda 15 miliardi di euro da investire entro e non oltre l’esercizio in corso e dei quali almeno un terzo entro il prossimo giugno.

Da questo punto di vista è grave il rifiuto di Berlusconi di inserire i provvedimenti a favore dei salari nel decreto definito “mille proroghe” che sarà approvato dal Parlamento entro il 29 febbraio prossimo. Se avesse accettato, quelle misure valutate a circa 2 miliardi, avrebbero potuto beneficiare i salari fin dal prossimo aprile dando un sensibile sollievo ai redditi medio – inferiori e sostenendo il consumo.

L’autore di quel provvedimento era il famigerato governo Prodi e questa è la sola ragione per cui il leader del centrodestra ha opposto il suo rifiuto. Così tutta la politica destinata alla crescita viene spostata in avanti di almeno quattro mesi se non di più, con effetti negativi che è difficile sottovalutare. Il governo (quale che sia) che uscirà dalle urne il 14 aprile, sarà operativo al più presto ai primi di maggio.

Anche se i leader dei due maggiori partiti si sono impegnati a far partire la propria politica fin dal primo Consiglio dei ministri, gli effetti richiederanno un tempo tecnico di almeno due mesi per farsi sentire. Se ne parlerà dunque ai primi di luglio per le misure di più pronto impiego. Il danno di questo scriteriato comportamento è evidente e dispiace che l’ottimo Mentana, che ha lungamente intervistato a Matrix dell’altro ieri il principale azionista di Mediaset, non gli abbia posto questa elementare domanda.

Resta comunque il problema di dove reperire risorse da destinare alla crescita per un ammontare pari a 15 miliardi. Ebbene, ci sono spese in attesa di copertura già previste entro il 2008, pari a 7 miliardi. Gli stanziamenti sono già stati indicati da Padoa-Schioppa. Una parte delle destinazioni sono coerenti con il sostegno della crescita; quelle che non lo sono possono esser rinviate e il loro ammontare utilizzato diversamente.

Le risorse restanti vanno, a mio avviso, mobilitate lasciando lievitare il deficit dal 2,2 preventivato dal governo Prodi al 2,8. Il commissario europeo Joaquin Almunia manderà alti lai, poiché una politica del genere allontana inevitabilmente il pareggio del nostro bilancio che Padoa-Schioppa aveva previsto per il 2010. Resteremmo tuttavia al di sotto della fatidica soglia del 3 per cento.

L’obiezione, lo so bene, riguarda gli effetti negativi sullo stock del debito pubblico. A questo riguardo però si potrebbe (a mio parere si dovrà) mettere in pista una robusta operazione di vendita del patrimonio mobiliare posseduto dallo Stato. Il Tesoro detiene ancora un largo pacco di partecipazioni mobiliari che possono essere collocate dal sistema bancario gradualmente sul mercato quando esso sarà uscito dalle attuali difficoltà.

Le partecipazioni in mano al Tesoro riguardano aziende di prim’ordine che fruttano anche cospicui dividendi. La loro privatizzazione rientra nei progetti dei due maggiori partiti. Del resto l’operazione potrebbe essere contenuta entro i limiti richiesti dai maggiori oneri sul debito pubblico derivanti dall’aumento del disavanzo. In pratica: un “deficit spending” neutralizzato da alienazioni di patrimonio, con l’obiettivo di imprimere uno scatto anti – recessivo che potrebbe fruttare almeno mezzo punto di Pil dal previsto 0,7 a qualche decimale al di sopra dell’1 per cento. Freno e acceleratore, appunto.

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Dove concentrare lo sforzo. Capisco la necessità sociale di un piano per gli asili nido. Capisco e condivido i maggiori investimenti per la ricerca, indispensabili per riqualificare le Università. Capisco i fondi per la scuola superiore, punto nero anzi nerissimo del nostro sistema scolastico. Qui necessitano piani di riforma che si estendono su un arco di tempo pluriannuale. Si tratta di mettere in moto i processi che esulano però da interventi anticiclici di immediato impiego.

A mio avviso il grosso del “deficit spending” ipotizzato dovrà esser destinato al potere d’acquisto delle fasce deboli, allo stipendio minimo del lavoro a tempo determinato e alle infrastrutture. Lo Stato si deve far carico d’un piano di investimenti pubblici che inneschi processi virtuosi di collaborazione con il capitale privato, superi le lentezze burocratiche, riduca al minimo il tempo delle gare d’appalto.

Questo tipo di investimento rappresenta un braccio di leva o meglio un motore d’avviamento con un elevato moltiplicatore; sostiene l’occupazione, accresce le dotazioni infrastrutturali e migliora per questa via la produttività di tutto il sistema.

Berlusconi, che anche lui ha formulato alcune proposte, ha indicato un programma informatico a vasto raggio per snellire e ridurre i costi della pubblica amministrazione. Credo sia una strada da seguire con l’avvertenza però che anche questo è un intervento che richiede un arco di tempo per dare frutti concreti.

* * *

Insomma “si può fare”. La crisi internazionale è purtroppo fuori dal controllo dei singoli governi nazionali, ognuno dei quali tuttavia ha la possibilità anzi il dovere di attivare tutte le risorse disponibili per migliorare la propria economia e contribuire per questa via al rilancio complessivo del ciclo.

Larghe intese? Berlusconi le propone in caso di parità elettorale. Veltroni ne ha delineato rigorosamente il campo. La maggioranza, quella che uscirà dalle urne, deve avere il diritto e la responsabilità di governare. D’altra parte, per quanto riguarda la Camera, basta un solo voto elettorale in più per far scattare il premio di maggioranza. Quanto al Senato, una maggioranza comunque ci sarà e sarebbe sufficiente che l’opposizione avesse il “fair play” di non perseguire la politica delle “spallate” voluta da Berlusconi per tutta la durata del governo Prodi e nel frattempo varasse le riforme costituzionali, queste sì “bipartisan”, tra le quali la nuova legge del Senato regionale. L’obiettivo si sposta dunque su chi si aggiudicherà un voto in più alla Camera. “Si può fare”.

Post scriptum. Ancora una volta voglio dare lode a Romano Prodi, Tommaso Padoa-Schioppa, Pier Luigi Bersani, Vincenzo Visco, per il positivo lavoro sui conti pubblici e sul programma di rilancio di cui la loro politica ha posto le necessarie premesse. Tre di loro hanno passato la mano in obbedienza ai propositi di rinnovamento da essi stessi condivisi. Ma meritano di essere salutati con onore. Gli aspetti negativi non sono dipesi dalla loro azione ma da una coalizione discorde e rissosa che Veltroni ha il merito d’aver finalmente e definitivamente liquidato.



*Le ultime di Berlusconi
sabato, febbraio 23, 2008, 9:14 am
Filed under: politica

da repubblica.it

 Berlusconi: “Vittoria scontata
altrimenti sì a larghe intese”

Nuovo scontro con Casini: “Con lui un rapporto sempre non positivo”
Il leader Udc: “Capisco che il centro lo infastidisce, ma lasci stare i chiacchiericci”

 

ROMA – Il Paese ha bisogno di “vasta concordia”, e se le elezioni finiranno come nel 2006, via libera alle larghe intese. Il meglio se lo tiene per la fine, Silvio Berlusconi. Ospite di Enrico Mentana a Matrix, parla a lungo di passato, presente e futuro, elogia Veltroni perché “anche grazie a lui è nato il Pdl”, consuma l’ennesimo scontro con Pier Ferdinando Casini e alla fine annuncia: “Se vinciamo sarà dialogo sulle riforme. Se sarà quasi pareggio, ripeterò alla sinistra la proposta di una grande coalizione”. Dice sì alle “liste pulite”, boccia l’alleanza con Mastella, e quanto ai nodi delle candidature a Roma e in Sicilia, nessuna decisione, per ora solo “dialogo costruttivo”. Ed entusiasta delle performance, alla Camera e al Senato, delle “azzurre”, annuncia che altre donne saranno candidate per il Pdl: “Sono leali, studiano e sono sgobbone”.

“Grazie a Walter”. Berlusconi, convinto che “la campagna elettorale è superflua perché gli italiani non votano per chi ha fatto disastri”, elogia Veltroni perché “il suo nuovo partito mi ha dato la possibilità di unire i liberali che non si riconoscono nella sinistra” e, così facendo, deroga al proposito di non citare mai l’avversario ma piuttosto di ricordare, a ogni occasione, le malefatte del governo Prodi.

Il passato. Raffica di aneddoti. Il Cavaliere ricorda l’episodio delle corna, “non le stavo facendo al ministro degli Esteri spagnolo ma a un gruppo di bambini per dire loro che è un gesto da non fare”. Di “spallata” non ha mai parlato, “semmai di implosione”. “Mai fatta campagna elettorale contro i comunisti, è una piaga dell’informazione italiana”. Poi, le bordate contro Casini. Per chiudere con un inedito Berlusconi che saluta con il pugno chiuso, su un volantino elettorale.
“Rapporto non positivo”. Il leader del Pdl ricorda la relazione col leader Udc, “caratterizzata da difficoltà e contrasti”. “Nel ’94 mi chiese di entrare in FI, dopo le elezioni mi fece dire da una sua amica che avrebbe costituito un gruppo alla Camera, poi volevano costruire un partito e nacque il Ccd”. Poi, nel ’96, “convinse Fini a non accettare il governo Maccanico per il quale io mi ero speso. Parlai loro piangendo per convincerli che se non avessimo recuperato i voti della Lega avremmo perso. Avevo ragione”. Quanto all’oggi, spiega di aver fatto a Casini lo stesso appello fatto a Fini: “Doveva rinunciare solo alla sua sigla. Ci disse di no, e ora per mettersi con De Mita cambia nome e simbolo e lo chiama Centro democratico”.

Casini: “Basta chiacchiericci”. Risposta a stretto giro dell’ex alleato: “Invito Berlusconi a non guardare la politica dal buco della serratura e attardarsi in chiacchiericci che non dovrebbero interessare una persona seria. Capisco che il centro gli dà fastidio ma l’Udc il suo simbolo non lo lascia per nessuno”. Poi, la sfida: “Venga a chiarire in un confronto tv”. Il Cavaliere glissa: “Impossibile. Se i candidati sono 8, non si possono fare 64 scontri in tv” (calcolo epraltro errato perché i confronti sarebbero 28).

“Pdl al 46%”. Non turba Berlusconi la “rimonta” del Pd della quale parla Veltroni (“13 punti recuperati da settembre”): “I nostri sondaggi danno il Pdl al 46%, gli elettori sanno che con la sinistra l’Italia è diventata un Paese del quarto mondo. Sono preoccupato per il dopo, dovremo rimediare ai danni”. Con la ricetta liberale: “Meno tasse, più consumi, produzione, entrate per aiutare chi ha bisogno, realizzare infrastrutture e ridurre il debito pubblico”.

“No candidati supposti autori di reati”. Berlusconi è d’accordo col principio delle “liste pulite” ma, ribadisce, non vale per vittime di condanne politiche. “Ho subìto 93 procedimenti, più di 2500 udienze ma ho mantenuto la mia fiducia nella magistratura perché non ho mai avuto una condanna”. Sempre in materia di candidature, nelle liste del Pdl “Dini ci sarà” mentre non ci sarà Mastella. Verso il quale il Cavaliere è “riconoscente” perché “ha fatto implodere il governo Prodi”. Ma non è possibile inserire i suoi candidati nelle liste perché “un certo modo di intendere la politica dell’Udeur fa sì che qualcuno non ci voterebbe”.

I centristi si organizzano. Nel weekend a Montecatini, assemblea della Rosa Bianca. Dovrebbero uscirne più definiti contorni e contenuti del movimento di Tabacci, Baccini e Pezzotta. Nessuna intesa siglata con l’Udc: “Leggo di accordi – dice Tabacci – mi sembra che ci sia troppa fretta”. “Auspichiamo – aggiunge Baccini – che personalità come De Mita e altre siano parte costituente di un grande progetto”. De Mita sembra pronto ad accogliere l’invito: “Rifarò la Dc. Mi sto adoperando per organizzare un movimento di opinione e recuperare la più grande cultura democratica nella storia politica del Paese”.

Casini: “No pateracchi”. L’ex presidente della Camera, di cui si parla come candidato premier dell’eventuale aggregazione centrista, chiarisce: “Lavoro per unire tutti ma non è il momento per compromessi, pasticci e pateracchi. La gente vuole candidature nitide. Auspico una bella convergenza al centro”. No a “candidature illustri e ballerine”, continua Casini. Su un possibile accordo con Mastella, preferisce “parlare di programmi e non di persone”.



*Lavoro minorile in Italia: la foto
venerdì, febbraio 22, 2008, 4:28 PM
Filed under: cronaca

da repubblica.it

“Tre euro l’ora e di nascosto”
ecco il lavoro dei bimbi italiani

di ROBERTO MANIA
 PALERMO – Angelo non ha ancora diciassette anni ma lavora da quando ne aveva poco più di dodici. È un minorenne che lavora, come tanti anche in Italia. Lavoro precoce, lo chiamano. Angelo non è il suo vero nome, la sua storia però è vera. È lui che la racconta. Lo fa con frasi mozze, senza dettagli, senza passione, con tanta ritrosia. A tratti con distacco. Ma accetta di farlo. Sta in assemblea, seduto in prima fila, jeans, giubbotto e zuccotto bianco, che non toglie mai.

Siamo a Brancaccio, storico quartiere proletario ad alta intensità mafiosa di Palermo, a qualche centinaio di metri dalla parrocchia di don Pino Puglisi, trucidato da Cosa nostra. Siamo nell’aula magna della scuola media statale “Sandro Pertini”. Scuola serale. Si parla di lavoro, questa volta, di quello che si fa e di quello che non c’è e che da queste parti non c’è mai stato. Perché a Palermo il tasso di disoccupazione rasenta il 19 per cento. Parlano gli insegnanti e il preside Rosario Ognibene; parla dei nuovi progetti della Fiat a Termini Imerese e dei corsi di formazione il sindacalista della Cisl Giuseppe Lupo, ma parlano soprattutto i giovani minori, adolescenti costretti a lavorare già da bambini.

Sempre in nero, sempre pagati poco. Sempre precari. Ma non sono eccezioni. Perché così lavorano i minori in Italia: di nascosto, nell’ombra. Sono – per definizione – lavoratori poveri, perché la povertà è il primo fattore che strappa i minori dalla scuola. E il tasso di povertà tra i più giovani è al sud quattro volte superiore a quello del nord. Per questo l’Italia è tra i paesi sviluppati quello nel quale il lavoro minorile rischia di allargarsi ancora.

dcmaxversion = 9 dcminversion = 6 Do On Error Resume Next plugin = (IsObject(CreateObject(“ShockwaveFlash.ShockwaveFlash.” & dcmaxversion & “”))) If plugin = true Then Exit Do dcmaxversion = dcmaxversion – 1 Loop While dcmaxversion >= dcminversionI dati sono allarmanti. L’Istat si occupa ancora poco dei lavori minori, quelli under 15 per le statistiche. L’ultima indagine (Bambini, lavori e lavoretti) risale al 2002 e la precedente addirittura al 1967. Dunque all’inizio del nuovo millennio (non c’è motivo di pensare che le cose siano migliorate, anzi) i ragazzi con meno di quindici anni che svolgevano un qualsiasi tipo di attività lavorativa erano 144.285, cioè il 3,1 per cento dei circa 4,5 milioni di bambini di quell’età.

La percentuale sale man mano che cresce l’età: lo 0,5 per cento tra i sette e dieci anni, il 3,7 per cento tra gli undici e i tredici, ben l’11,6 per cento dei bimbi di quattordici anni. Ma quello del lavoro precoce è un fenomeno che, proprio perché illegale, facilmente sfugge ai tabulati della statistica. L’Ires, il centro studi della Cgil, ha allargato il campo della ricerche e da tempo stima che i piccoli al lavoro siano molti di più, intorno ai 500 mila che arrivano a oltre 600 mila se si considerano, da una parte anche i quindicenni, dopo l’innalzamento a sedici anni dell’obbligo scolastico, e dall’altra, oltre agli immigrati, coloro che non sono ancora maggiorenni e hanno già lavorato prima di aver compiuto i quindici anni. Un approccio che potremmo definire realistico.

Ma c’è Angelo che parla. Per lavorare si sveglia alle tre di notte. Il suo è un lavoro pericoloso. Angelo “dipende” da un’azienda di Carini, alle porte di Palermo, che smaltisce rifiuti speciali. Raccolgono le batterie esaurite, l’olio vecchio delle macchine, ferro e metalli. Con il furgoncino, guidato dal fratello (che ha 28 anni), arrivano fino a Gela. “Sono cinque anni che lo faccio”, dice. Quasi dieci ore di lavoro al giorno. La sua paga è di 300 euro alla settimana. “Ma io – spiega – aspetto i diciotto anni, prendo la patente e mi metto in proprio. Così guadagno di più. Cosa faccio nel weekend? Sono stanco e mi riposo”.

Sempre in prima fila c’è un giovane poco più grande di Angelo. È appena maggiorenne. Ma, anche lui, è già al lavoro da cinque anni. Lui fa l”ndoratore, cioè l’imbianchino. Con orgoglio e le profonde occhiaie che gli cerchiano gli occhi, spiega che se la cava bene con i colori mentre come muratore è “mezzo braccio”, più o meno un apprendista. Ha imparato a mescolare le vernici “guardando”, “ma è difficile”, aggiunge.

Si guarda e si impara anche a macellare le carni al mattatoio, a servire nei bar e nei ristoranti di zona o a fare il panettiere che a Palermo, per antica tradizione, significa non fermarsi quasi mai. Mestieri faticosi, come quello di montare e smontare le fiere paesane e i mercatini itineranti. Attività, non senza pericoli fisici, che risente da sempre della stagionalità (poco lavoro in inverno, di più in estate) e della crisi economica che qui è arrivata prima del crollo che ha travolto le Borse mondiali. Qui quando cala la domanda si interviene subito. E si decide: la paga si è ridotta da 3,50 euro all’ora a 3. Punto.

“Ci alziamo alle quattro del mattino – racconta il montatore di fiere a nome di un gruppetto di “colleghi” – . Si lavora al freddo, si va fino a Marsala, Mazara del Vallo e quando ce lo chiedono arrotondiamo con qualche lavoro da muratore”. Lui ha provato anche la vecchia strada dell’immigrazione al nord. A quindici anni (ora ne ha diciassette) aveva già lavorato in Toscana, in Friuli, a Milano aiutato dallo zio. “A Milano ho fatto per un anno il muratore. Lavori “lasci e prendi”. Sono “sceso” per prendere la terza media. Per mettermi in regola”. Cioè per avere qualche chance, magari un posto pubblico nell’epoca della globalizzazione. Sono “vite di scarto”, pensando a Bauman, nell’Italia del 2008.



*Finisce l’era De Mita, 45 anni di regno
mercoledì, febbraio 20, 2008, 11:32 PM
Filed under: politica

da repubblica.it

De Mita sbatte la porta e lascia il Pd
“Farò ancora politica. Contro di voi”

Fuori dalle liste chi ha fatto tre legislature. Veltroni: “Sufficienti 45 anni da parlamentare”
De Mita in carica dal 1963. In Irpinia pesa “decina di migliaia di voti”. L’offerta di Tabacci
di CLAUDIA FUSANI

 ROMA – “Mi sento insultato e me ne vado”. Tono di voce perentorio, ma anche tremante, alle dieci e mezzo il vecchio leone di Nusco Ciriaco De Mita, appena ottantenne, esce come un furetto in via S.Andrea delle Fratte e va incontro, con fare anche un po’ teatrale, alla selva di telecamere. E’ ufficiale: nelle liste del nuovo partito non c’è posto per lui, classe 1928, in politica dal 1963. Colpa del nuovo che avanza e delle regole messe per iscritto: chi ha fatto più di tre legislature non può essere ricandidato. Salvo alcune deroghe. “Nell’applicazione dello statuto sono vittima dell’età. Mi ribello, non ci sto e lascio questo partito”. Per fare cosa onorevole De Mita? “Per fare politica, contro il Pd. Perchè sia chiaro: io l’ultimo comizio lo farò quando muoio”.

Ecco, così alle dieci e mezzo di mercoledì 20 febbraio anno 2008, De Mita sbatte la porta del Pd. E va incontro a un nuovo destino. Rosa Bianca? Udc di Casini? Forse che recupera con Mastella? Le ipotesi si sprecano nel giro di pochi minuti. “Non farò una mia lista ma sia chiaro – dice De Mita alzando il dito – non lascio la politica”.

Via S.Andrea delle Fratte, sede della vecchia Margherita. Qui il Pd convoca le sue riunioni più affollate. Nel loft non c’è posto. Stamani è in agenda la riunione dei 150 del Coordinamento nazionale del partito che deve approvare Statuto, programma e affrontare il nodo, spinosissimo, della formazione delle liste e delle candidature. Tra queste quella di De Mita. Già da ieri sera è quasi ufficiale: è fuori, per lui non ci sarà posto, gli ultimi tentativi dei “suoi”, del delfino Tino Iannuzzi passando per i quadri campani della ex Margherita, sono finiti in nulla. I giornali stamani non fanno che confermare i rumors: con tutta la buona volontà non esiste una mezza ragione utile per poterlo tenere in lista. Neppure quella delle decine di migliaia di voti che De Mita si porta in eredità da quel di Nusco e della provincia di Avellino e dell’Irpinia tutta.


Così De Mita aspetta che la sala conferenze al primo piano sia piena, che i 150 del Coordinamento abbiano preso posto e decide di consumare lo strappo. In pubblico, ad alta voce, subito dopo l’introduzione di Romano Prodi. Alza la mano, chiede e ottiene la parola, si alza, va alla tribunetta con microfono e parla. Meno di un minuto, raccontano i presenti, “a gola spiegata”. “Sono entrato nel Pd nonostante le molte perplessità. Adesso divento vittima di criteri di selezione della classe dirigente fondati sull’età e non sull’intelligenza politica. Per questo ritengo di non poter più partecipare ad un progetto che giudico inconsistente perchè fonda la sua prospettiva più sul desiderio che sulla realtà”. Quella contro Veltroni è molto più di una frecciata. “Il trasferimento in Italia di un modello statunitense si fonda più sull’indicazione del nuovo come speranza che sulla politica come soluzione dei problemi”. La stanza resta immobile, silente, assiste, non interviene. “Per questo motivo – conclude De Mita – non sarò più con voi ma contro di voi”. Prende la porta e se ne va. Incontro alle telecamere, appunto, per spiegare al mondo la sua offesa.

Nella sala piomba l’imbarazzo. Nessuno si aspettava una sceneggiata del genere. Per uscire dall’impasse prende la parola Veltroni: “Mi spiace per l’abbandono del Pd da parte di Ciriaco De Mita ma 40 anni da parlamentare più 5 in Europa mi sembrano sufficienti”. La riunione è a porte chiuse. Testimoni riferiscono poi che il segretario avrebbe aggiunto che “non si lascia un partito perchè non si è in lista”.

Per la riunione la storia “finisce” qua. Il Coordinamento passa ai punti all’ordine del giorno, discussione e votazione del regolamento e del programma “di 30 pagine”, liste e candidature, chi sta dentro, chi sta fuori, la promessa: “Un terzo degli eletti saranno donne”. Ma lo strappo di De Mita corre fuori dalla sede del Pd. E apre scenari ancora tutti da decifrare.

Dopo neppure due ore dallo strappo si fa vivo Bruno Tabacci, candidato premier della Rosa Bianca. Gli ex Udc sono pronti a candidare De Mita, “le nostre strade possono convergere”. Se si conta poi che oggi si sono registrate nuove manovre di avvicinamento tra Udc e Rosa Bianca, tra una cosa e l’altra si intravede la vecchia Dc. Certo l’impero di Nusco e la provincia di Avellino significano “qualche decina di migliaia di voti”. Una dote che in questo momento fa gola a tutti i centristi, da Casini a Tabacci passando per Mastella. De Mita non farà una sua lista, non ne avrebbe neppure il tempo, ma ha promesso che farà “politica contro il Pd” perchè “come il poeta spagnolo che morirà con la chitarra in mano, io quando morirò farò l’ultimo comizio elettorale”. Della serie: in pensione prima del tempo non ci vado.

Ma la dote di consensi di De Mita è fondamentale anche per il Pd soprattutto in Campania dove il partito di Veltroni rischia di essere travolto, anzi, sommerso dall’immondizia. “Temo conseguenze disastrose in Campania: già così si prevedeva un tonfo per il Pd, ora perdiamo altri voti. E soprattutto uno dei nostri punti di riferimento” è il nero pronostico di Alfonso Andria, eurodeputato salernitano e membro del Coordinamento nazionale.

Così, se Veltroni assicura “non telefonerò a De Mita, mi spiace, ma l’impegno politico non è legato alle candidature”, Castagnetti si augura che “Ciriaco ci ripensi”. E Rosa Russo Jervolino che “non faccia campagna contro il Pd”. D’Alema si dispiace “moltissimo”, la Velina Rossa lo considera “sbagliato” e Bersani allarga le braccia.

Ago e filo per ricucire, al momento, non se ne vedono in giro. Una scuola di quadri politici? Maestro di politica? La direzione del partito ha accettato 32 deroghe ai professionisti della politica ma ha anche tenuto fuori big come Prodi, Amato e Visco. De Mita, in fondo, dicono al loft “è quello con più mandati e più legislature”



*Castro abdica
mercoledì, febbraio 20, 2008, 11:24 PM
Filed under: esteri

da repubblica.it

Cuba, il lungo assedio del Golia Usa

di VITTORIO ZUCCONI

NON PUO’ essere un caso, sapendo con quanta maliziosa attenzione egli segua la politica americana, se Fidel Ruiz Castro ha annunciato il proprio addio al potere usando le stesse parole che Lyndon Johnson pronunciò nel 1968, arrendendosi alla stanchezza: “Non intendo cercare, né accettare se mi venisse offerto, l’incarico di Presidente”.

A metà tra l’orgoglio di chi ha saputo sopravvivere a mezzo secolo di spallate “yanqui” e lo sfottò del monello cubano che dal murales del lungo mare di Havana davanti alla ambasciata americana fa marameo ai “senores imperialistas”, il vecchissimo Davide che dal 1959 tormenta il Golia Usa, se ne va quando decide lui.

Deposto non da invasioni, sollevazioni, complotti, sigari alla stricnina, polverine depilatorie, killer mafiosi, agenti della Cia, embarghi, anatemi, ma dal nemico imparziale e indifferente che alla fine ha ragione dei giusti come degli ingiusti: il tempo.

“Finalmente il popolo cubano potrà forse godere le benedizioni della libertà”, profetizza George W Bush dall’Africa dove sta compiendo una delle sue tournée d’addio al palcoscenico, ma neppure lui, come i nove presidenti che si sono succeduti nel mezzo secolo di Fidelismo a Cuba, Eisenhower, Kennedy, Johnson, Ford, Carter, Reagan, Bush il Vecchio, Clinton e Bush il Giovane, potrà vantarsi di averlo sconfitto e di avere risolto la “questione cubana”. La Cuba di Castro, ora divenuta la Cuba dei Castro, cadrà nel grembo del decimo inquilino della Casa Bianca, Obama, Clinton (lei) o McCain.

Ben altro finale, che questo crepuscolo da vecchio generale che non muore, ma che lentamente va in dissolvenza, avrebbero sognato queste dieci amministrazioni americane che per lui sfiorarono lo scambio nucleare con Mosca e rimasero tutte intrappolate in quell’embargo, il “bloqueo” nella dizione cubana, che è stata la stampella politica e nazionalistica sulla quale Castro si è retto, anche quando la Russia di Gorbaciov e di Eltsin gli tagliò le vene. “Se Cuba fosse stata invasa da centinaia di McDonald’s e di Wal-Mart, anziché da mediocri sicari e da mercenari inetti, non avrebbe resistito dieci anni” ha scritto il New York Times.


Anche nella strade di Miami, della Little Havana, di quella comunità cubana in esilio che da 50 anni, dunque ormai da due generazioni, fa veglie, organizza cerimonie “vodoo” e ricatta i candidati alla Casa Bianca con la importanza del proprio blocco elettorale nel bizzarro meccanismo imperniato proprio sulla decisiva Florida, la gioia per la resa di Fidel all’età e all’infermità, sembra appannata dalla rabbia di vederlo finire come un funzionario delle poste, piuttosto che come un Saddam Hussein trucidato all’alba o come un Ceaucescu fucilato.

L’estate scorsa, in agosto, il tam tam anticastrista in Florida si era esaltato per l’annuncio apparso rilanciato dal blog neocon di Perez Hilton e rilanciato dai neocon di neoconnews. com che aveva saputo, da fonte sicura, che Fidel “stava succhiando il suo sigaro all’inferno”. E se altri blog di cubani negli Usa fanno appello alla “santeria”, il vodoo in salsa cubana, producendo bambolotti con la testa di Fidel sui quali appuntare gli spilli del malocchio, si avverte che non era questa, della morte per vecchiaia, la vendetta che il ribollente rancore degli esiliati sognava.

Castro ha perduto la grande guerra politica con “los senores imperialistas”, ma ha vinto la sua piccola guerra privata, la sua “tigna”, con quel colosso del Nord che lui ha sempre, e neppur tanto segretamente, ammirato, invidiato e odiato. Mentre il suo progetto di “esportare la rivoluzione” falliva miseramente, prima nel proprio emisfero, poi addirittura in Africa nella scellerata guerra di liberazione dell’Angola che, tra i tanti disastri, importò a Cuba l’Hiv contratto dai soldati e per anni negato dal regime che richiudeva i reduci infettati in lazzaretti per incurabili, altrettanto miseramente fallivano tutti i tentativi americani di piegarlo con la forza o con il ricatto economico.

Era semmai lui a farsi beffe del Golia impotente aprendo (e chiudendo) le frontiere e vomitando decine di migliaia di oppositori, scontenti, ladri, sulle coste della Florida, approfittando della politica delle porte aperte. Poi chiuse nel panico da quel Clinton che fu costretto a mettere un limite all’accoglienza di “balseros” e di “gusanos” in 20 mila per anno, di disperati sulle loro flottiglie di balsa e di vermi espulsi dalle galere cubane e sprofondare nell’umiliazione del caso Elian. Il bambino emigrato clandestinamente e restituito a Castro, dopo un osceno assalto delle forze speciali con mitra alla mano nella casa degli zii dove si era rifugiato.

La “benedizione della libertà” che oggi Bush invoca per Cuba diventerà la “maledizione” del suo successore. Saranno McCain, Clinton (lei) od Obama (che Castro ha già detto di ammirare, facendogli un gran brutto favore) a decidere se continuare il “bloqueo” e sperare che il regime cada come un frutto fradicio dalla palma o se una nuova politica, che salvi l’indipendenza e l’orgoglio dei cubani terrorizzati all’idea di tornare a essere l’appendice verminosa della Florida, possa accompagnare con saggezza non ideologica quest’isola meravigliosamente tragica verso la democrazia che non passi per la violenza, le vendette, le rese dei conti. Nella Little Havana di Miami, già “abogados” ingordi e geometri stanno rintracciando le piante e le mappe della città per riprendersi ciò che fu espropriato e dividersi il bottino catastale, sempre a spese di cubani neppure nati quando Fidel scese dalla Sierra.

Servirà, al nuovo presidente americano per la prima volta posto di fronte a una Cuba senza l’alibi Fidel, quella lungimiranza che ai suoi predecessori è mancata. Permettendo a questo formidabile vecchietto di allontanarsi come Lyndon Johnson nella storia, non processato, ma pensionato.



*GAL: chi l’ha visto?
lunedì, febbraio 18, 2008, 12:35 PM
Filed under: tivoli
Ecco cos’è il Gal, descrizione presa dal suo sito ( http://www.galanienetiburtino.it/gal_at.asp )…l’ultima news risale al 2007, l’ultimo progetto al 2006.
Il soggetto proponente il PSL è il Gruppo di Azione Locale GAL Aniene – Tiburtino, associazione riconosciuta tra partners pubblici e privati la cui forma giuridica è disciplinata dagli artt. 14-35 del codice civile. L’Associazione è costituita quale Gruppo di Azione Locale (G.A.L.), così come previsto dall’Iniziativa Comunitaria Leader + e dal Programma Regionale Leader + 2000/2006 approvato dalla Commissione Europea con Decisione n. C/2001/3626 del 26 novembre 2001 con lo scopo prioritario di dare attuazione al Piano di Sviluppo Locale (PSL) approvato dalla Regione Lazio. L’Associazione riveste il ruolo di soggetto responsabile dell’attuazione del PSL nonché delle azioni e degli interventi in esso inseriti. L’Associazione, nell’attuazione del Piano di Sviluppo Locale, non ha fini di lucro, esaurisce le proprie finalità in ambito regionale e durerà almeno fino alla completa attuazione del Piano di Sviluppo Locale. ell’attuazione del Piano di Sviluppo Locale, opera esclusivamente nell’ambito dei Comuni il cui territorio è incluso nell’area di intervento del PSL stesso ed in conformità a quanto previsto: – dal Programma Regionale Leader 2000/2006; – dal Complemento di Programzione; – dalla normativa comunitaria, nazionale e regionale richiamata nei documenti di cui ai precedenti trattini; – dalle disposizioni regionali di attuazione del Programma emanate prima e dopo l’approvazione dei PSL; – dalla normativa specifica per ogni settore di intervento del PSL. Le responsabilità, i compiti e gli obblighi dei GAL sono quelli definiti nel Programma Regionale Leader + 2000/2006, nel Complemento di Programmazione e nei successivi atti e provvedimenti emessi in attuazione degli stessi
LA MISSION:
La “Mission” del GAL può essere definita dal tema catalizzatore prescelto nell’ambito delle finalità generali dei Gruppi di Azione locale, volti a favorire lo sviluppo locale dei territori rurali, aumentandone la competitività sociale, economica, ed ambientale-culturale. Tale tema catalizzatore è espressamente dichiarato nel PSL :
“Valorizzazione dei prodotti locali, in particolare agevolando mediante un’azione collettiva l’accesso ai mercati per le piccole strutture produttive”.


*Terremoto in giunta post elezioni del PD
domenica, febbraio 17, 2008, 8:41 PM
Filed under: tivoli

Tivoli 15-02-08
Il sindaco Vincenzi nomina un nuovo assessore

Dopo le elezioni interne al Partito democratico del 14 ottobre, arriva un improvviso cambiamento all’interno della Giunta Vincenzi. Oggi infatti il sindaco di Tivoli ha nominato assessore Massimo Ruggeri, affidandogli le deleghe alle politiche scolastiche e alla biblioteca.
Ruggeri entra nella Giunta comunale al posto dell’assessore Alessandro Moreschini.
Con una breve nota, Palazzo San Bernardino ha comunicato che “la sostituzione è avvenuta a seguito delle mutate condizioni politiche all’interno del Partito Democratico”.