IL FILO DI ARIANNA di TRIPLAG..il filo per non perdersi nella realtà


*La Palestina scende in campo. Prima partita in casa della nazionale palestinese di calcio
domenica, ottobre 26, 2008, 10:54 PM
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Calcio: prima partita “in casa” per la Palestina, 1-1 con la Giordania
AL-RAM (Cisgiordania) – “Una vittoria per il calcio”. Cosi’ il presidente della Fifa, Joseph Blatter, ha definito l’evento che si e’ consumato oggi allo stadio Al-Husseini, nella citta’ di Al-Ram, nelle vicinanze di Ramallah, dove la Palestina ha disputato la prima partita ufficiale nei Territori dal giorno dell’affiliazione della sua Federazione alla Fifa, avvenuta nel 1998. La nazionale palestinese ha pareggiato 1-1 con la Giordania. Proprio Blatter, presente al match, ha inaugurato lo stadio insieme ad altre autorita’. “Il calcio e’ molto di piu’ che un semplice correre dietro al pallone”, ha commentato Blatter. “L’obiettivo non e’ solo fare gol, ma stare in contatto con la realta’ del globo e costruire un futuro migliore”.


*Germania: lo stato pagherà le vittime dei nazisti
martedì, ottobre 21, 2008, 6:16 PM
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Stragi naziste, ‘Germania risarcisca’
La Cassazione condanna Berlino

La decisione apre la strada ad almeno 10.000 cause di vittime del Terzo Reich

 

ROMA – La Germania dovrà risarcire nove familiari delle vittime della strage di Civitella, Cornia e San Pancrazio in provincia di Arezzo, dove il 29 giugno 1944 i nazisti uccisero 203 persone tra uomini, donne e bambini. Lo ha stabilito la Cassazione respingendo il ricorso con il quale la Germania contestava di poter essere chiamata a risarcire danni a suo avviso già ‘coperti’ dal trattato del 1947 e dagli accordi di Bonn del 1961. La decisione apre la strada a circa 10.000 cause di vittime del nazismo.

I giudici della prima sezione penale della Suprema corte, dopo diverse ore di camera di consiglio, hanno di fatto condiviso le conclusioni del sostituto procuratore generale Roberto Rosin che aveva chiesto di respingere il ricorso e confermare la condanna della Germania “in solido” con l’ex sergente Max Josef Milde.

Milde è stato condannato all’ergastolo, nel dicembre 2007, per la strage del ’44 i nazisti uccisero 203 persone tra uomini, donne e bambini. Tra le vittime anche il parroco di Civitella, don Alcide Lazzari, al quale è stata poi conferita la medaglia d’oro al valore civile. Alcune delle donne vennero anche violentate prima di essere uccise. Già i magistrati militari, oltre a condannare Milde, avevano previsto per i nove familiari costituiti parte civile nel processo un risarcimento complessivo di un milione di euro. Si tratta dei parenti di due soltanto delle oltre 200 vittime. La sentenza, inoltre, dispone che dell’obbligo di risarcire le parti civili rispondano “in solido” sia l’imputato sia lo stato tedesco. Contro questo principio di responsabilità congiunta, che non ha precedenti nella giurisprudenza, la Germania si era appunto rivolta alla Cassazione.

Il ricorso tedesco si concentrava, in sostanza, su due punti: l’immunità e il difetto di giurisdizione della magistratura italiana. Il pg Rosin, nel corso della requisitoria ai giudici della Cassazione, ha replicato che “l’immunità rivendicata dalla Germania non si applica nei casi di crimini contro l’umanità”. Per quanto riguarda la giurisdizione, lo Stato tedesco ha fatto riferimento al trattato di pace stipulato con l’italia nel 1947 e alla successiva convenzione di Vienna del 1961. “Accordi internazionali – ha sottolineato il pg – che non includono i danni morali per le stragi naziste ma solo per ebrei deportati”.

Già il tribunale militare di La Spezia, nell’ottobre del 2006, in occasione della condanna in primo grado per l’ex sergente Milde, aveva previsto l’obbligo per la Germania di risarcire le parti civili. La condanna all’ergastolo per l’ex sergente, che faceva parte della banda musicale di una divisione dell’esercito tedesco, è ormai definitiva in quanto non è stato presentato alcun ricorso contro la sentenza d’appello.

E’ la prima volta che la Cassazione stabilisce il principio secondo il quale un paese può essere chiamato in giudizio, in sede penale, per la responsabilità civile. Una decisione che a questo punto aprirà la strada quantità esorbitante di risarcimenti se si considera che i deportati statisticamente si aggirano intorno alle 600.000 unità. “Più o meno – ha affermato l’avvocato che rappresentava in Cassazione la Germania Augusto Dossena – le cause per chiedere il risarcimento potrebbero aggirarsi intorno alle 10.000. Ma con questa decisione nessuno Stato andrà ad impegnarsi per i risarcimenti perché l’azione del singolo li blocca”.



*La legalità in Italia: ultimi tra i primi
giovedì, settembre 25, 2008, 6:35 PM
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Corruzione ‘percepita’, esce il rapporto
Italia retrocessa prende un quattro

 

ROMA – Corruzione reale o percepita? Transparency, L’Organizzazione internazionale contro la corruzione divulga oggi in tutto il mondo il rapporto di aggiornamento dell’Indice di percezione della corruzione 2008 (CPI). Lo studio segnala una brusca retrocessione della ‘corruzione percepita’ per l’Italia, che prende un voto di 4,8 su 10.

Nella graduatoria mondiale l’Italia si colloca al 55esimo posto, preceduta da Cile (23esimo), Corea del Sud (40esimo) e Costa Rica (47esimo). In cima alla classifica della trasparenza ‘percepita’ si confermano i soliti virtuosi: Danimarca, Nuova Zelanda e Svezia. Al quarto posto c’è Singapore. Germania, Gran Bretagna, Francia e Spagna occupano rispettivamente il quattoridcesimo, sedicesimo, ventitresimo e ventiottesimo posto. In fondo alla classifica di 180 paesi c’è la Somalia. L’Italia, dunque, si trova tra le ultime del terzo superiore, quello dei paesi più avanzati.

L’indice è ottenuto sulla base di complessi studi statistici e ordina i paesi del mondo sulla base del “livello secondo il quale l’esistenza della corruzione è percepita tra pubblici uffici e politici”, secondo la definizione che ne dà la stessa organizzazione. Che definisce la corruzione come “l’abuso di pubblici uffici per il guadagno privato”.

Quanto a scarsa trasparenza, in Italia è la gestione della sanità in cima alla classifica negativa. Afferma Quintiliano Valenti, Vice-Presidente di Transparency Italia: “Ogni singola attività della sanità dovrebbe essere completamente trasparente, proprio per la sua importanza: le scelte, i costi, le graduatorie devono essere visibili e controllabili, in rete, da tutti i cittadini”.

L’organizzazione apprezza la trasparenza impressa dal ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, per “l’esposizione pubblica di molti dati, che consentono ai cittadini di conoscere e giudicare” – afferma la Presidente Maria Teresa Brassiolo. Che però, adesso, vuole un segnale più forte: “chiediamo con insistenza la nomina, con la massima urgenza, del nuovo Sottosegretario alla funzione di Alto commissario per la lotta alla corruzione, in grado di dare all’istituzione la massima stabilità e visibilità anche internazionale”.

 

L’ITALIA HA PERSO 15 POSIZIONI NELL’ULTIMO ANNO…sarà un caso??

 

2008 CORRUPTION PERCEPTIONS INDEX
country
rank
country 2008 CPI
score
surveys
used
confidence range
1 Denmark 9,3 6 9.1 – 9.4
1 New Zealand 9,3 6 9.2 – 9.5
1 Sweden 9,3 6 9.2 – 9.4
4 Singapore 9,2 9 9.0 – 9.3
5 Finland 9,0 6 8.4 – 9.4
5 Switzerland 9,0 6 8.7 – 9.2
7 Iceland 8,9 5 8.1 – 9.4
7 Netherlands 8,9 6 8.5 – 9.1
9 Australia 8,7 8 8.2 – 9.1
9 Canada 8,7 6 8.4 – 9.1
11 Luxembourg 8,3 6 7.8 – 8.8
12 Austria 8,1 6 7.6 – 8.6
12 Hong Kong 8,1 8 7.5 – 8.6
14 Germany 7,9 6 7.5 – 8.2
14 Norway 7,9 6 7.5 – 8.3
16 Ireland 7,7 6 7.5 – 7.9
16 United Kingdom 7,7 6 7.2 – 8.1
18 Belgium 7,3 6 7.2 – 7.4
18 Japan 7,3 8 7.0 – 7.6
18 USA 7,3 8 6.7 – 7.7
21 Saint Lucia 7,1 3 6.6 – 7.3
22 Barbados 7,0 4 6.5 – 7.3
23 Chile 6,9 7 6.5 – 7.2
23 France 6,9 6 6.5 – 7.3
23 Uruguay 6,9 5 6.5 – 7.2
26 Slovenia 6,7 8 6.5 – 7.0
27 Estonia 6,6 8 6.2 – 6.9
28 Qatar 6,5 4 5.6 – 7.0
28 Saint Vincent and the
Grenadines
6,5 3 4.7 – 7.3
28 Spain 6,5 6 5.7 – 6.9
31 Cyprus 6,4 3 5.9 – 6.8
32 Portugal 6,1 6 5.6 – 6.7
33 Dominica 6,0 3 4.7 – 6.8
33 Israel 6,0 6 5.6 – 6.3
35 United Arab Emirates 5,9 5 4.8 – 6.8
36 Botswana 5,8 6 5.2 – 6.4
36 Malta 5,8 4 5.3 – 6.3
36 Puerto Rico 5,8 4 5.0 – 6.6
39 Taiwan 5,7 9 5.4 – 6.0
40 South Korea 5,6 9 5.1 – 6.3
41 Mauritius 5,5 5 4.9 – 6.4
41 Oman 5,5 5 4.5 – 6.4
43 Bahrain 5,4 5 4.3 – 5.9
43 Macao 5,4 4 3.9 – 6.2
45 Bhutan 5,2 5 4.5 – 5.9
45 Czech Republic 5,2 8 4.8 – 5.9
47 Cape Verde 5,1 3 3.4 – 5.6
47 Costa Rica 5,1 5 4.8 – 5.3
47 Hungary 5,1 8 4.8 – 5.4
47 Jordan 5,1 7 4.0 – 6.2
47 Malaysia 5,1 9 4.5 – 5.7
52 Latvia 5,0 6 4.8 – 5.2
52 Slovakia 5,0 8 4.5 – 5.3
54 South Africa 4,9 8 4.5 – 5.1
55 Italy 4,8 6 4.0 – 5.5
55 Seychelles 4,8 4 3.7 – 5.9
57 Greece 4,7 6 4.2 – 5.0
58 Lithuania 4,6 8 4.1 – 5.2
58 Poland 4,6 8 4.0 – 5.2
58 Turkey 4,6 7 4.1 – 5.1
61 Namibia 4,5 6 3.8 – 5.1
62 Croatia 4,4 8 4.0 – 4.8
62 Samoa 4,4 3 3.4 – 4.8
62 Tunisia 4,4 6 3.5 – 5.5
65 Cuba 4,3 4 3.6 – 4.8
65 Kuwait 4,3 5 3.3 – 5.2
67 El Salvador 3,9 5 3.2 – 4.5
67 Georgia 3,9 7 3.2 – 4.6
67 Ghana 3,9 6 3.4 – 4.5
70 Colombia 3,8 7 3.3 – 4.5
70 Romania 3,8 8 3.4 – 4.2
72 Bulgaria 3,6 8 3.0 – 4.3
72 China 3,6 9 3.1 – 4.3
72 Macedonia (Former Yugoslav Republic of) 3,6 6 2.9 – 4.3
72 Mexico 3,6 7 3.4 – 3.9
72 Peru 3,6 6 3.4 – 4.1
72 Suriname 3,6 4 3.3 – 4.0
72 Swaziland 3,6 4 2.9 – 4.3
72 Trinidad and Tobago 3,6 4 3.1 – 4.0
80 Brazil 3,5 7 3.2 – 4.0
80 Burkina Faso 3,5 7 2.9 – 4.2
80 Morocco 3,5 6 3.0 – 4.0
80 Saudi Arabia 3,5 5 3.0 – 3.9
80 Thailand 3,5 9 3.0 – 3.9
85 Albania 3,4 5 3.3 – 3.4
85 India 3,4 10 3.2 – 3.6
85 Madagascar 3,4 7 2.8 – 4.0
85 Montenegro 3,4 5 2-5 – 4.0
85 Panama 3,4 5 2.8 – 3.7
85 Senegal 3,4 7 2.9 – 4.0
85 Serbia 3,4 6 3.0 – 4.0
92 Algeria 3,2 6 2.9 – 3.4
92 Bosnia and Herzegovina 3,2 7 2.9 – 3.5
92 Lesotho 3,2 5 2.3 – 3.8
92 Sri Lanka 3,2 7 2.9 – 3.5
96 Benin 3,1 6 2.8 – 3.4
96 Gabon 3,1 4 2.8 – 3.3
96 Guatemala 3,1 5 2.3 – 4.0
96 Jamaica 3,1 5 2.8 – 3.3
96 Kiribati 3,1 3 2.5 – 3.4
96 Mali 3,1 6 2.8 – 3.3
102 Bolivia 3.0 6 2.8 – 3.2
102 Djibouti 3,0 4 2.2 – 3.3
102 Dominican Republic 3,0 5 2.7 – 3.2
102 Lebanon 3,0 4 2.2 – 3.6
102 Mongolia 3,0 7 2.6 – 3.3
102 Rwanda 3,0 5 2.7 – 3.2
102 Tanzania 3,0 7 2.5 – 3.3
109 Argentina 2,9 7 2.5 – 3.3
109 Armenia 2,9 7 2.6 – 3.1
109 Belize 2,9 3 1.8 – 3.7
109 Moldova 2,9 7 2.4 – 3.7
109 Solomon Islands 2,9 3 2.5 – 3.2
109 Vanuatu 2,9 3 2.5 – 3.2
115 Egypt 2,8 6 2.4 – 3.2
115 Malawi 2,8 6 2.4 – 3.1
115 Maldives 2,8 4 1.7 – 4.3
115 Mauritania 2,8 7 2.2 – 3.7
115 Niger 2,8 6 2.4 – 3.0
115 Zambia 2,8 7 2.5 – 3.0
121 Nepal 2,7 6 2.4 – 3.0
121 Nigeria 2,7 7 2.3 – 3.0
121 Sao Tome and Principe 2,7 3 2.1 – 3.1
121 Togo 2,7 6 1.9 – 3.7
121 Viet Nam 2,7 9 2.4 – 3.1
126 Eritrea 2,6 5 1.7 – 3.6
126 Ethiopia 2,6 7 2.2 – 2.9
126 Guyana 2,6 4 2.4 – 2.7
126 Honduras 2,6 6 2.3 – 2.9
126 Indonesia 2,6 10 2.3 – 2.9
126 Libya 2,6 5 2.2 – 3.0
126 Mozambique 2,6 7 2.4 – 2.9
126 Uganda 2,6 7 2.2 – 3.0
134 Comoros 2,5 3 1.9 – 3.0
134 Nicaragua 2,5 6 2.2 – 2.7
134 Pakistan 2,5 7 2.0 – 2.8
134 Ukraine 2,5 8 2.2 – 2.8
138 Liberia 2,4 4 1.8 – 2.8
138 Paraguay 2,4 5 2.0 – 2.7
138 Tonga 2,4 3 1.9 – 2.6
141 Cameroon 2,3 7 2.0 – 2.7
141 Iran 2,3 4 1.9 – 2.5
141 Philippines 2,3 9 2.1 – 2.5
141 Yemen 2,3 5 1.9 – 2.8
145 Kazakhstan 2,2 6 1.8 – 2.7
145 Timor-Leste 2,2 4 1.8 – 2.5
147 Bangladesh 2,1 7 1.7 – 2.4
147 Kenya 2,1 7 1.9 – 2.4
147 Russia 2,1 8 1.9 – 2.5
147 Syria 2,1 5 1.6 – 2.4
151 Belarus 2,0 5 1.6 – 2.5
151 Central African Republic 2,0 5 1.9 – 2.2
151 Côte d´Ivoire 2,0 6 1.7 – 2.5
151 Ecuador 2,0 5 1.8 – 2.2
151 Laos 2,0 6 1.6 – 2.3
151 Papua New Guinea 2,0 6 1.6 – 2.3
151 Taijikistan 2,0 8 1.7 – 2.3
158 Angola 1,9 6 1.5 – 2.2
158 Azerbaijan 1,9 8 1.7 – 2.1
158 Burundi 1,9 6 1.5 – 2.3
158 Congo, Republic 1,9 6 1.8 – 2.0
158 Gambia 1,9 5 1.5 – 2.4
158 Guinea-Bissau 1,9 3 1.8 – 2.0
158 Sierra Leone 1,9 5 1.8 – 2.0
158 Venezuela 1,9 7 1.8 – 2.0
166 Cambodia 1,8 7 1.7 – 1.9
166 Kyrgyzstan 1,8 7 1.7 – 1.9
166 Turkmenistan 1,8 5 1.5 – 2.2
166 Uzbekistan 1,8 8 1.5 – 2.2
166 Zimbabwe 1,8 7 1.5 – 2.1
171 Congo, Democratic Republic 1,7 6 1.6 – 1.9
171 Equatorial Guinea 1,7 4 1.5 – 1.8
173 Chad 1,6 6 1.5 – 1.7
173 Guinea 1,6 6 1.3 – 1.9
173 Sudan 1,6 6 1.5 – 1.7
176 Afghanistan 1,5 4 1.1 – 1.6
177 Haiti 1,4 4 1.1 – 1.7
178 Iraq 1,3 4 1.1 – 1.6
178 Myanmar 1,3 4 1.0 – 1.5
180 Somalia 1,0 4 0.5 – 1.4


*Sud America sempre più caldo: Ecuador e Venezuela contro la Colombia
martedì, marzo 4, 2008, 2:28 PM
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da repubblica.it

Venezuela-Colombia, è escalation
Chavez e Correa: “Uribe criminale”

di OMERO CIAI

QUITO espelle l’ambasciatore colombiano, e rompe le relazioni diplomatiche. Bogotà rilancia contro il presidente ecuadoriano, Correa, e quello venezuelano, Chavez, mentre, a Parigi, il ministro Kouchner rivela che l’esercito di Uribe ha fatto fuori il mediatore dell’affare Betancourt. La crisi scatenata con l’uccisione sabato scorso del numero due della guerriglia colombiana, Raul Reyes, non accenna a placarsi ma anzi sembra destinata ad una pericolosissima escalation.

All’unisono Chavez e Correa hanno definito il presidente colombiano Uribe “un criminale” e il mandante di “un volgare omicidio”, di “un atto di guerra e contro i diritti umani” perché Reyes si trovava in un accampamento in Ecuador al di là del confine colombiano ed è stato ammazzato con un colpo al petto, in pigiama, e non “in combattimento”, come sosteneva la prima versione dei fatti diffusa a Bogotà. Ma la Colombia rilancia e accusa: l’incursione militare in Ecuador era “necessaria” per eliminare un “leader terrorista” (Reyes) e tra le sue carte e i suoi computer ci sarebbero le prove non soltanto di una protezione da parte dell’Ecuador alla guerriglia delle Farc ma anche di un grosso finanziamento (200 milioni di euro) versato dal presidente venezuelano Chavez ai ribelli colombiani.

Così mentre Chavez e Correa spostano truppe verso i rispettivi confini con la Colombia (Chavez da est e Correa da sud-ovest) lo scenario sembra scivolare lentamente verso un conflitto armato che per il momento nessuno immagina come prossimo o possibile, anche se le vicende politiche interne di ciascun presidente e la storia delle loro relazioni negli ultimi anni, hanno messo in allarme molti osservatori.

L’unica superpotenza della regione, ossia il Brasile di Lula, s’è mosso in fretta sul fronte diplomatico provando ad organizzare una troika, Brasile, Cile e Argentina, per gettare rapidamente acqua sul fuoco.

Ma da una parte c’è l’ultimo leader filo americano del sub continente, Uribe, (che ha guidato l’azione in Ecuador contro il portavoce delle Farc grazie agli americani che hanno individuato la posizione del telefono satellitare) mentre dall’altra ci sono i due presidenti più anti americani della regione (Chavez e Correa). Tanto che si potrebbe pensare ad una “guerra per procura”, genere: visto che non possiamo attaccare Golia (Bush), attacchiamo il suo alleato.
Critica, come sottolineava da Parigi Kouchner, la situazione dei 39 ostaggi “politici” sequestrati dalle Farc.

All’interno dell’organizzazione Reyes, braccio destro di “Tirofijo” Marulanda, suo probabile successore e marito di una delle sue figlie, era considerato un moderato. E con Chavez e Sarkozy stava cercando di ottenere in cambio della vita di Ingrid un riconoscimento diplomatico internazionale. E’ possibile che avrebbe alla fine ceduto il prezioso ostaggio a cambio di una promessa dell’Eliseo: quella di convincere l’Unione Europea a depennare le sue Farc dalla lista nere dei gruppi terroristi. Ribatte la Colombia: da molto tempo non ci sono prove di vita del leader delle Farc, ossia di Marulanda, e uccidendo Reyes forse “abbiamo addirittura fatto fuori il capo”, come pensare che l’azione non fosse “assolutamente necessaria” nella “guerra civile” che da mezzo secolo oppone i governi di Bogotà all’ultima formazione guerrigliera dell’America Latina.



*Iran: le Quote Azzurre per proteggere i maschi
martedì, febbraio 26, 2008, 7:35 PM
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da repubblica.it

Troppe laureate, l’Iran
vara le quote azzurre

di VANNA VANNUCCINI

 

<B>Troppe laureate, l'Iran<br>vara le quote azzurre</B>Studentesse e studenti universitari iraniani a Teheran

LE RAGAZZE sono il motore del cambiamento sociale in Iran, dice Shirin Ebadi, primo premio Nobel per la pace del mondo islamico che è diventata il simbolo del movimento femminista iraniano. Soprattutto dopo che il disincanto per la politica e le repressioni hanno disgregato il movimento studentesco, la lotta delle donne per la parità dei diritti è rimasta il segno più tangibile della resistenza al regime dei mullah.

Nemmeno il presidente Ahmadinejad è riuscito a rimandare le donne al focolare. Ci sono donne a Teheran che dirigono ospedali e giornali, che lavorano come ingegneri dei cantieri di costruzione, che sono a capo dei reparti femminili della polizia. Nonostante i giri di vite recenti sui codici di vestiario, le ragazze continuano a testare i limiti della libertà con giacchine sempre più corte, pantaloni sempre più stretti e foulard sempre più colorati. Un terzo delle studentesse va alle lezioni senza chador, indossando un semplice foulard, pur sapendo che il giorno che troveranno un impiego pubblico il chador sarà obbligatorio.

Soprattutto, il numero delle ragazze nelle università iraniane è salito continuamente negli ultimi anni.
Ventinove anni dopo la rivoluzione islamica le ragazze sono il 65 per cento degli studenti universitari. E ai temuti Konkur per l’ammissione alle università (tutte a numero chiuso) le ragazze sono ogni anno più del 60 per cento e i ragazzi meno del 40 per cento degli ammessi. Ce n’era abbastanza per allarmare il regime, che oggi ha deciso di fissare delle quote azzurre, in modo da assicurare la presenza di più maschi negli atenei.


Nei giorni scorsi una commissione parlamentare aveva presentato un rapporto in cui esprimeva la preoccupazione che il numero crescente di studentesse avrebbero creato nei prossimi anni un problema sul mercato del lavoro, che non può assorbire secondo la commissione un numero così grande di donne. Molti deputati conservatori che vorrebbero la divisione per sesso tra i medici (le donne medico a loro avviso dovrebbero riservare le loro prestazioni alle pazienti femmine) hanno visto un nuovo pericolo nella crescita delle donne medico. Lo stesso per quanto riguarda farmacisti e dentisti, tra i quali i laureati sono già al 60 per cento donne.

Paradossalmente, proprio l’obbligo del chador e della divisione tra sessi ha funzionato da lasciapassare per molte figlie di famiglie tradizionali e religiose, alle quali le famiglie non permettevano prima di uscire di casa per frequentare l’università e per lavorare in luoghi pubblici.

Secondo le statistiche del ministero per l’istruzione universitaria le donne erano il 37 per cento nel 1997, l’anno in cui fu eletto il presidente riformatore Khatami. È a lui che si deve l’inizio della liberalizzazione. Il governo Khatami decise di reinstaurare le donne nella carriera di giuriste (nel solo campo del diritto di famiglia), che dopo la rivoluzione era stata loro preclusa. Oggi ce ne sono un centinaio. Le studentesse ebbero il permesso di andare a studiare all’estero – fino ad allora un diritto riservato a quelle sposate.

Un parco riservato alle donne è stato aperto a Teheran dove le ragazze possono praticare tutti gli sport senza l’obbligo del chador. Le donne hanno avuto il permesso di lavorare come tassiste (in taxi riservati alle clienti di genere femminile). Le esigenze della vita moderna provocano in Iran contrapposizioni continue con le strutture patriarcali e le norme islamiche. Uno dei paradossi iraniani è infatti che un forte senso della tradizione si accompagna a una altrettanto forte fede nel progresso, nella scienza e nel sapere, che è condivisa da tutti i gruppi politici. Il disprezzo dei taliban afgani per il progresso è sconosciuto ai mullah.

Le nuove regole, che entreranno in vigore per il prossimo esame di ammissione in estate, prevedono che in ogni facoltà ci sarà una quota rosa e una quota azzurra del 30 per cento ciascuna. Solo il resto dei posti, cioè il 40 per cento, sarà lasciato alla libera competizione. “La legge garantisce in questo modo i maschi nelle facoltà dove le ragazze sono più numerose, come le scienze naturali, ma favorisce anche le donne là dove ce ne sono di meno, come le facoltà d’ingegneria e di scienze umane” ha detto il capo dell’Organizzazione dei konkur accademici cercando di relativizzare la portata della decisione.



*Castro abdica
mercoledì, febbraio 20, 2008, 11:24 PM
Filed under: esteri

da repubblica.it

Cuba, il lungo assedio del Golia Usa

di VITTORIO ZUCCONI

NON PUO’ essere un caso, sapendo con quanta maliziosa attenzione egli segua la politica americana, se Fidel Ruiz Castro ha annunciato il proprio addio al potere usando le stesse parole che Lyndon Johnson pronunciò nel 1968, arrendendosi alla stanchezza: “Non intendo cercare, né accettare se mi venisse offerto, l’incarico di Presidente”.

A metà tra l’orgoglio di chi ha saputo sopravvivere a mezzo secolo di spallate “yanqui” e lo sfottò del monello cubano che dal murales del lungo mare di Havana davanti alla ambasciata americana fa marameo ai “senores imperialistas”, il vecchissimo Davide che dal 1959 tormenta il Golia Usa, se ne va quando decide lui.

Deposto non da invasioni, sollevazioni, complotti, sigari alla stricnina, polverine depilatorie, killer mafiosi, agenti della Cia, embarghi, anatemi, ma dal nemico imparziale e indifferente che alla fine ha ragione dei giusti come degli ingiusti: il tempo.

“Finalmente il popolo cubano potrà forse godere le benedizioni della libertà”, profetizza George W Bush dall’Africa dove sta compiendo una delle sue tournée d’addio al palcoscenico, ma neppure lui, come i nove presidenti che si sono succeduti nel mezzo secolo di Fidelismo a Cuba, Eisenhower, Kennedy, Johnson, Ford, Carter, Reagan, Bush il Vecchio, Clinton e Bush il Giovane, potrà vantarsi di averlo sconfitto e di avere risolto la “questione cubana”. La Cuba di Castro, ora divenuta la Cuba dei Castro, cadrà nel grembo del decimo inquilino della Casa Bianca, Obama, Clinton (lei) o McCain.

Ben altro finale, che questo crepuscolo da vecchio generale che non muore, ma che lentamente va in dissolvenza, avrebbero sognato queste dieci amministrazioni americane che per lui sfiorarono lo scambio nucleare con Mosca e rimasero tutte intrappolate in quell’embargo, il “bloqueo” nella dizione cubana, che è stata la stampella politica e nazionalistica sulla quale Castro si è retto, anche quando la Russia di Gorbaciov e di Eltsin gli tagliò le vene. “Se Cuba fosse stata invasa da centinaia di McDonald’s e di Wal-Mart, anziché da mediocri sicari e da mercenari inetti, non avrebbe resistito dieci anni” ha scritto il New York Times.


Anche nella strade di Miami, della Little Havana, di quella comunità cubana in esilio che da 50 anni, dunque ormai da due generazioni, fa veglie, organizza cerimonie “vodoo” e ricatta i candidati alla Casa Bianca con la importanza del proprio blocco elettorale nel bizzarro meccanismo imperniato proprio sulla decisiva Florida, la gioia per la resa di Fidel all’età e all’infermità, sembra appannata dalla rabbia di vederlo finire come un funzionario delle poste, piuttosto che come un Saddam Hussein trucidato all’alba o come un Ceaucescu fucilato.

L’estate scorsa, in agosto, il tam tam anticastrista in Florida si era esaltato per l’annuncio apparso rilanciato dal blog neocon di Perez Hilton e rilanciato dai neocon di neoconnews. com che aveva saputo, da fonte sicura, che Fidel “stava succhiando il suo sigaro all’inferno”. E se altri blog di cubani negli Usa fanno appello alla “santeria”, il vodoo in salsa cubana, producendo bambolotti con la testa di Fidel sui quali appuntare gli spilli del malocchio, si avverte che non era questa, della morte per vecchiaia, la vendetta che il ribollente rancore degli esiliati sognava.

Castro ha perduto la grande guerra politica con “los senores imperialistas”, ma ha vinto la sua piccola guerra privata, la sua “tigna”, con quel colosso del Nord che lui ha sempre, e neppur tanto segretamente, ammirato, invidiato e odiato. Mentre il suo progetto di “esportare la rivoluzione” falliva miseramente, prima nel proprio emisfero, poi addirittura in Africa nella scellerata guerra di liberazione dell’Angola che, tra i tanti disastri, importò a Cuba l’Hiv contratto dai soldati e per anni negato dal regime che richiudeva i reduci infettati in lazzaretti per incurabili, altrettanto miseramente fallivano tutti i tentativi americani di piegarlo con la forza o con il ricatto economico.

Era semmai lui a farsi beffe del Golia impotente aprendo (e chiudendo) le frontiere e vomitando decine di migliaia di oppositori, scontenti, ladri, sulle coste della Florida, approfittando della politica delle porte aperte. Poi chiuse nel panico da quel Clinton che fu costretto a mettere un limite all’accoglienza di “balseros” e di “gusanos” in 20 mila per anno, di disperati sulle loro flottiglie di balsa e di vermi espulsi dalle galere cubane e sprofondare nell’umiliazione del caso Elian. Il bambino emigrato clandestinamente e restituito a Castro, dopo un osceno assalto delle forze speciali con mitra alla mano nella casa degli zii dove si era rifugiato.

La “benedizione della libertà” che oggi Bush invoca per Cuba diventerà la “maledizione” del suo successore. Saranno McCain, Clinton (lei) od Obama (che Castro ha già detto di ammirare, facendogli un gran brutto favore) a decidere se continuare il “bloqueo” e sperare che il regime cada come un frutto fradicio dalla palma o se una nuova politica, che salvi l’indipendenza e l’orgoglio dei cubani terrorizzati all’idea di tornare a essere l’appendice verminosa della Florida, possa accompagnare con saggezza non ideologica quest’isola meravigliosamente tragica verso la democrazia che non passi per la violenza, le vendette, le rese dei conti. Nella Little Havana di Miami, già “abogados” ingordi e geometri stanno rintracciando le piante e le mappe della città per riprendersi ciò che fu espropriato e dividersi il bottino catastale, sempre a spese di cubani neppure nati quando Fidel scese dalla Sierra.

Servirà, al nuovo presidente americano per la prima volta posto di fronte a una Cuba senza l’alibi Fidel, quella lungimiranza che ai suoi predecessori è mancata. Permettendo a questo formidabile vecchietto di allontanarsi come Lyndon Johnson nella storia, non processato, ma pensionato.



* Iraq: bruciano documenti compromettenti e le milizie diventano regolari
mercoledì, gennaio 30, 2008, 1:14 am
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da unita.it 

Iraq, rogo di documenti nella Banca centrale

 

Baghdad, ingegneri contro il carovita

Tre attentati dinamitardi con morti e feriti, una decina di cadaveri decapitati trovati al bordo di una strada, soldati americani che tornano in patria dentro bare ammantate della bandiera a stelle e strisce: l’Iraq è sempre l’Iraq. Anzi, dopo alcuni mesi in cui la situazione sembrava aver subito una svolta positiva, in questo martedì di fine gennaio ad uno sguardo d’insieme sembra aver fatto un balzo all’indietro. Eppure ci sono lo stesso delle eclatanti novità, per quanto sia assai difficile darne una connotazione positiva.In uno degli attentati di lunedì che hanno colpito Baghdad – un altro più comunemente è stato contro una pattuglia americana -, è stata una donna a farsi esplodere. Velata e imbottita di esplosivo è riuscita così a confondersi tra le altre in fila per la perquisizione al posto di blocco d’ingresso alla zona commerciale del quartiere sunnita di Amariyah. Due sue vicine sono morte e altrettante sono rimaste ferite per il suo gesto suicida.

Un’altra esplosione ha colpito in mattinata la città di Mosul. Quindici persone sono rimaste ferite: tutti passanti che si trovavano casualmente sulla stessa strada, nel pieno centro cittadino, al passaggio di una pattuglia dell’esercito Usa, obiettivo dell’attentato. Lunedì in un analogo attacco hanno trovato la morte cinque soldati americani.

La città di Mosul e l’intera provincia di Ninive, ai confini con ill Kurdistan iracheno, è da una settimana al centro di violenti combattimenti. Da quando le truppe Usa e irachene hanno lanciato congiuntamente quella che il premier Nuri al Maliki ha definito la «battaglia finale contro Al Qaida». L”offensiva è partita, martedì scorso e i morti sono già un centinaio. Sessanta sono morti nella potente esplosione che ha distrutto un deposito di bombe, probabilmente usato dai qaedisti. Il giorno successivo lì tra le macerie è stato ucciso il capo della polizia della provincia di Ninive che stava facendo un sopralluogo. L’organizzazione qaedista “Stato Islamico dell’Iraq” ha smentito la paternità dell’attentato al deposito accusando «i crociati» – cioè gli occidentali -di averlo realizzato per incolpare gli islamisti sunniti.

A Moqdadiyah, un centro a nordest di Baghdad, nella provincia di Diyala – considerata la roccaforte della corrente irachena di Al Qaida- oggi la polizia ha trovato 19 corpi mutilati, dieci dei quali con la testa mozzata. Tutti uomini la cui morte risalirebbe a pochi giorni fa. Era da un po’ che non si facevano macabri ritrovamenti del genere in Iraq, fino a poco tempo fa molto frequenti, che rimandano alla pratica di torturare e giustiziare i prigionieri da parte di squadroni armati.

Metodi spicci, forse utilizzati anche dagli ex combattenti delle milizie sunnite che adesso vengono inquadrati nell’esercito iracheno in funzione anti Al Qaida.

L’esercito Usa ha annunciato ieri che più di 9 mila membri dei Consigli del Sahwa (“risveglio” in arabo), la milizia sunnita che combatte l’organizzazione di al-Qaeda in Iraq, sono stati selezionati e pronti per essere inquadrati nell’esercito e nelle forze di polizia. Unica condizione richiesta per il loro inserimento nelle truppe regolari è un giuramento di lealtà verso lo Stato e la rinuncia al confessionalismo.

Nel nuovo Iraq, dove qualcosa cambia e qualcosa assume una sembianza diversa, un certo sconcerto è stato suscitato dal rogo che ha semidistrutto, lunedì, il palazzo della Banca centrale irachena. Uno strano incendio divampato all’inizio dell’orario di lavoro, che si è propagato in fretta senza fare feriti ma distruggendo completamente i primi quattro piani dell’edificio. Ci sono volute sei ore ai pompieri per domare le fiamme.

Un certo numero di parlamentari iracheni chiede ora al governo del premier Nouri al-Maliki di formare una commissione d’inchiesta per conoscere le cause e individuare i responsabili del rogo. Che tra l’altro, è curiosamente scoppiato in simultanea con un altro incendio al ministero del Lavoro e degli Affari sociali. Il sospetto è che le fiamme potrebbero essere state appiccate ad arte per distruggere i documenti che provavano le accuse di corruzione nei confronti di alcuni funzionari del governo. E i documenti con cui il ministero del Petrolio dava inizio ai procedimenti per sanzionare le compagnie petrolifere straniere che hanno stretto contratti diretti con la regione del Kurdistan, bypassando il governo centrale.

Testimoni oculari hanno riferito che tutto intorno al palazzo, già protetto da alti muri di cemento, sono stati immediatamente eretti cordoni di sicurezza e posti di blocco, isolando l’intera zona, il quartiere settentrionale di Bab al-Mouadham, e impedendo a fotografi e tele-operatori di riprendere anche solo un fotogramma della scena.



Iran: 290 esecuzioni nel 2007
domenica, dicembre 23, 2007, 10:46 am
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da ansa.it  

  

Iran: impiccato spacciatore

Nel Paese oltre 290 esecuzioni capitali dall’inizio del 2007

(ANSA) – TEHERAN, 22 DIC – Un eroinomane condannato per traffico di stupefacenti e’ stato impiccato in Iran. Era stato trovato in possesso di 365 grammi di eroina. Sono oltre 290, secondo notizie di stampa, le esecuzioni capitali avvenute dall’inizio dell’anno in Iran, contro le 177 riportate da Amnesty International in tutto il 2006. In Iran la pena di morte e’ prevista, tra l’altro, per l’omicidio, la rapina a mano armata, il traffico di droga, la violenza carnale, l’apostasia, l’adulterio e la sodomia.



Castro lascia il testimone?
martedì, dicembre 18, 2007, 2:00 PM
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da repubblica.it

Castro adesso apre alla successione
“Non voglio aggrapparmi al potere”

Una delle ultinme apparizioni di Fidel Castro

L’AVANA – “Il mio dovere elementare non è aggrapparmi al potere ma contribuire con esperienza ed idee”. E’ questo il passaggio saliente della lettera scritta dal presidente cubano Fidel Castro alla tv statale di Cuba e letta ieri in diretta nel corso del programma Tavola Rotonda. Un messaggio in cui il lìder màximo, ormai da 16 mesi lontano dal governo del paese dopo alcuni delicati interventi all’intestino che lo hanno obbligato a un forzato riposo, annuncia di fatto l’intenzione di non ritornare al comando neppure nel caso le condizioni di salute glielo consentissero.

Castro spiega quindi di non voler ostacolare “l’avanzata delle nuove generazioni”, aggiungendo che ciascun aspetto della attuale situazione a Cuba ha più variabili di quelle esistenti su una scacchiera, sottolineando di sperare che nelle soluzioni adottate possa prevalere “l’intelligenza sugli istinti”. Tuttavia, ammette, “non mi faccio illusioni” perché “non si tratta di un cammino facile”.

La lettera arriva in un momento particolarmente delicato della vita politica cubana. Il 20 gennaio verranno eletti infatti i nuovi membri del Parlamento.
Prima tappa di un processo che il 5 marzo 2008 culminerà con l’elezione del presidente dei Consiglio di Stato e dei ministri, incarichi da sempre assegnati personalmente da Castro.

Parafrasando un detto dell’architetto brasiliano Oscar Niemeyer, che ha appena compiuto 100 anni, Castro sostiene quindi di voler “essere coerente fino alla fine”. Nel suo messaggio, il leader cubano infine non ha potuto fare a meno di sottolineare con soddisfazione la sconfitta degli Stati Uniti alla conferenza Onu di Bali sul clima, dove i paesi membri del ‘Gruppo dei 77’ sono riusciti a raccogliere un consenso per ridurre le emissioni di gas serra nonostante l’opposizione di Washington.



Il Dalai Lama si racconta alla Repubblica
sabato, dicembre 15, 2007, 11:44 am
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Il Dalai Lama: “Italia, i miei rimpianti
Non boicottate le Olimpiadi in Cina”

di ANAIS GINORI

Il Dalai Lama a Roma

ROMA – “In Tibet è perfino proibito pronunciare il mio nome”. Il Dalai Lama, in questi giorni a Roma, parla delle persecuzioni del governo cinese nei confronti dei buddisti (“hanno tolto qualsiasi riferimento alla religione, è proibito fare pellegrinaggi”), nega di voler puntare all’indipendenza del Tibet ed esprime rammarico per non avere potuto incontrare Benedetto XVI. “Il Papa però rappresenta una importantissima spiritualità e la spiritualità deve essere ferma quando si tratta di principi”. Perché non ha incontrato il governo italiano? “Chiedetelo a loro” ribatte con un sorriso disarmante.

“Sono ingombrante, che posso farci?”. Piedi scalzi, seduto in posizione yoga e avvolto nella sua tunica giallo-arancione, “Oceano di Saggezza” ha modi semplici, informali. Stringe la mano con convinzione, fa spazio dentro alla suite dell’hotel Exedra di Roma. Eccoci dice, go on, parliamo. Perché non ha incontrato il governo italiano? “Già, perché? Chiedetelo a loro” ribatte, con il suo solito, disarmante sorriso. L’icona mondiale del pacifismo, 72 anni di cui 48 passati in esilio, torna serio. “Me ne dispiace. Un piccolo rimpianto c’è anche per non aver visto il Papa. Ma se ha trovato qualcosa di sconveniente, nell’incontrarmi, per me va bene, non c’è problema. Il Papa però rappresenta un’importantissima spiritualità. E la spiritualità deve essere ferma quando si tratta di principi”.

Sua Santità, crede che le pressioni della Cina abbiano condizionato il governo italiano?

“Ovunque io vada, cerco sempre di non recare disturbo, quindi se provoco imbarazzo a qualche governo rispondo “Ok, nessun problema”. Non sarò certo io a protestare. Il mio obiettivo più grande è la promozione dei valori umani e l’armonia tra le religioni. Ecco, l’unica cosa che mi sento di dire è forse che anche i governi e i leader politici dovrebbero fare qualcosa di più per promuovere i diritti umani e i valori (ride)”.


Lei ha parlato più volte di un genocidio culturale in Tibet.
“Nel nostro paese, è vietato tenere una statua di Budda in casa, o esibire qualsiasi oggetto religioso. E’ proibito fare pellegrinaggi ai templi. Nelle scuole, le autorità cinesi hanno tolto ogni riferimento alla religione, mentre nei monasteri buddisti sono incominciati gli indottrinamenti politici, divisi in punti. Il primo punto è quello che invita a criticare il Dalai Lama”.

In Tibet è addirittura proibito pronunciare il suo nome, giusto?
“Hanno anche tolto tutte le mie fotografie. Ma non fa niente. La cosa fondamentale è che nel nostro paese c’è un’insofferenza sempre maggiore e che qualsiasi manifestazione di protesta o critica alle autorità cinesi viene repressa con la violenza. Arresti e torture sono all’ordine del giorno. I tibetani vengono trattati come cittadini di seconda classe nel loro stesso paese. Anzi, come animali da bastonare, a cui è negata qualsiasi dignità”.

Le capita di provare rabbia o frustrazione?

“Non sono abituato a lasciarmi andare a questi sentimenti. E’ molto meglio rimanere calmi, proteggere la propria pace mentale”.

La Cina l’accusa di essere un leader politico che cerca l’indipendenza, un separatista.
“Sono accuse calcolate, perché da tempo i cinesi sanno che non cerchiamo l’indipendenza. Purtroppo è ormai chiaro che è in atto una strategia di denigrazione nei miei confronti. Volontaria e costante”.

Se non cercate l’indipendenza, quali sono gli ostacoli per trovare un accordo con Pechino?

 Il Dalai Lama e Gorbaciov

“Dal 2001 ci sono stati sei incontri tra la nostra delegazione e il governo cinese. Fino all’anno scorso, nel nostro penultimo colloquio, avevamo fatto molti progressi. Nella primavera 2006 sono invece ricominciate le accuse nei miei confronti e la repressione all’interno del Tibet. Prima dell’estate, durante il nostro ultimo incontro, Pechino ha rotto il dialogo. Dicendoci soltanto: “Non c’è nessuna questione aperta sul Tibet”. Oggi devo ammettere che la situazione è molto critica, difficile. Da parte nostra nulla è cambiato. Siamo sempre in cerca di un riconoscimento della nostra autonomia, all’interno della Costituzione della repubblica popolare cinese”.

E’ a favore del boicottaggio delle Olimpiadi?
“No. Da subito, mi sono pronunciato contro il boicottaggio. La Cina è un grande paese, si merita le Olimpiadi. Penso però che per essere un buon ospite, Pechino dovrebbe prestare più attenzione alle preoccupazioni di governi e Ong sulle violazioni di diritti umani, libertà religiosa e di espressione, e sul rispetto dell’Ambiente”.

Cosa possono fare i governi occidentali per aiutare la causa tibetana?
“La mia opinione su questo è che la Cina non deve essere isolata dalla comunità internazionale. E se guardiamo all’economia, l’integrazione dei cinesi è già nei fatti, ma non è sufficiente. Il mondo libero ha la responsabilità morale di portare la Cina nell’ambito della democrazia. La relazione economica deve essere un’amicizia alla pari, in cui vengono tenuti fermi i valori delle società aperte e democratiche. Se ci si presenta solo per fare affari, ripetendo unicamente “Sì, ministro”, allora si rischia di perdere la faccia, e anche il rispetto dei cinesi”.

Se non fosse stato un Dalai Lama, cosa avrebbe fatto?
“Ma è impossibile! Un sogno! (ride) E’ vero però che la mia mente è molto scientifica. Anche Mao Zedong me lo aveva detto. Forse avrei fatto qualche mestiere attinente alla meccanica”.

E’ vero che ama riparare i motori?
“Certo, usando gli attrezzi e sporcandomi le mani di grasso. Quando ero giovane, però. Ora non lo faccio più”.

Come sarà scelto il prossimo Dalai Lama?
“Ci sono tre opzioni. La prima, prevede che il mio successore sarà eletto con una procedura simile a quella del Papa, scelto da un conclave di religiosi. La seconda, potrebbe essere la scelta del Dalai Lama prima della mia morte. E’ già successo. Infine, è possibile la mia reincarnazione, dopo la mia morte. In questo caso, se morirò in esilio, la mia nuova reincarnazione dovrà portare a termine quello che non ho potuto fare in questa vita. E quindi il prossimo Dalai Lama nascerà fuori dalla Cina”.

I cinesi potrebbero scegliere loro il suo successore, come già è accaduto per il Panchen Lama.
“Se fosse così non sarebbe un Dalai Lama, ma soltanto un pupazzo (ride). Speriamo non lo facciano, anche se lo temo: i nostri fratelli e sorelle cinesi sono molto furbi e amano complicare le cose (ride)”.

E lei si ricorda il momento in cui è stato riconosciuto come la quattordicesima reincarnazione del Dalai Lama?
“Avevo due anni, vivevamo in un remoto villaggio del Tibet orientale. Mia madre racconta che nei giorni precedenti all’arrivo della delegazione in cerca del nuovo Dalai Lama, ero stranamente eccitato. Poi quando i lama arrivarono, corsi verso di loro e riconobbi come miei gli oggetti del precedente Dalai Lama. E dopo due giorni, mentre andavano via, mi misi a piangere. Un comportamento molto strano: quale bambino vuole seguire degli estranei, invece che rimanere con la propria madre? (ride)”.

Non deve essere stato facile diventare improvvisamente, così piccolo, un Dio Re.
“Fortunatamente, venivo trattato come un bambino normale. Durante le cerimonie ero sul trono, ma quando giocavo con gli altri bambini ero uno di loro. Mi capitava spesso di perdere, e mi arrabbiavo parecchio. La sera, ci sedevano in cerchio a bere tè, mangiando zuppe. Mi ricordo che guardavo con invidia la ciotola degli inservienti, molto più grande della mia (ride). Noi bambini ci raccontavano storie di fantasmi, che di notte mi terrorizzavano (si copre gli occhi e ride). Ero davvero un bambino come gli altri, felice. Se io e mio fratello facevamo capricci per non studiare, il maestro ci prendeva a frustate. L’unica differenza era che il frustino per me era giallo, del colore sacro. Il dolore, però, era lo stesso! (ride)”.

Durante l’adolescenza, il suo paese è stato invaso e lei si è ritrovato a trattare con il Grande Timoniere, Mao Zedong.
“Lo incontrai nel 1954 a Pechino. Mi trattò come un figlio, mi diede consigli. Mi aveva quasi convinto ad iscrivermi al partito comunista. Ancora adesso mi considero metà buddista, metà marxista. Davvero, credo che il marxismo sia ancora la chiave di una giustizia sociale ed economica”.

Eppure nel marzo 1959 dovette scappare dal Tibet, in piena notte e a dorso di uno yak.
“Dal palazzo reale di Potala vedevo l’artiglieria cinese avanzare. Non ho scelto l’esilio, sono stato costretto. E adesso è quasi mezzo secolo che sono un homeless, un senza casa, per fortuna ho trovato tanti amici all’estero, anche in Italia (ride)”.

Ha voglia di esprimere un desiderio per il 2008?
“Spero che la Cina si aprirà al mondo, con fiducia e speranza”.