IL FILO DI ARIANNA di TRIPLAG..il filo per non perdersi nella realtà


*Gioia e dolore in un attimo di 3 anni. La Sgrena liberata, Calipari ucciso.
martedì, marzo 4, 2008, 6:12 PM
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Giuliana Sgrena è libera.
Assassinato il suo liberatore


Nicola Calipari, il funzionario del Sismi che ha fatto da mediatore per la liberazione di Giuliana Sgrena è stato ucciso dai colpi esplosi da un blindato delle truppe statunitensi  contro l’automobile dei servizi segreti italiani che trasportava Giuliana verso l’aeroporto di Baghdad. Nicola Calipari l’ha salvata due volte: l’ultima, riparandola col proprio corpo durante la sparatoria. Nato a Reggio Calabria, aveva 50 anni, era sposato e padre di due figli, una ragazza di 19 anni e un ragazzo di 13. In polizia da oltre vent’anni, Nicola Calipari aveva reso possibile anche la liberazione di Simona Pari e Simona Torretta. Lunedì mattina a Roma si sono celebrati i funerali di Stato.

Giuliana è stata liberata e sta bene, dopo l’operazione subita a Bagdad per togliere una scheggia, è arrivata sabato mattina a Roma ed è stata ricoverata all’ospedale del Celio dove sarà operata nei prossimi giorni alla clavicola. Nel viaggio in automobile che la portava la sera del 4 marzo verso l’aeroporto di Baghdad e verso di noi la sua vettura è stata colpita dal fuoco degli americani. E’ stata ferita, in modo non grave, insieme ad altre due persone. Nicola Calipari del Sismi è rimasto ucciso. Il Dipartimento di Stato Usa ha espresso il proprio «rammarico» per l’incidente avvenuto a Baghdad.



*Cermis: 9 anni fa l’assoluzione del pilota
martedì, marzo 4, 2008, 6:05 PM
Filed under: storie d'italia

20 morti: sette tedeschi, cinque belgi, tre italiani, due austriaci, due polacchi e un’olandese.
Tutti i passeggeri della funivia del Cermis. Turisti, gente in vacanza nel pieno della stagione sciistica, travolti da una fine assurda: il gioco violento ed infantile, di quattro militari che si cedevano superuomini, quattro militari che indossavano la divisa da ufficiali dell’aeronautica militare americana.
Il loro aereo, un Ea-6b, dislocato ad Aviano (Pordenone) nell’ambito di missioni in Bosnia per conto della NATO, sceso volutamente troppo a bassa quota durante un’esercitazione nella zona di Cavalese, in val di Fiemme, trancia a velocità micidiale un cavo della funivia ed urta la cabina dell’impianto che precipita al suolo. Unico superstite il manovratore che resta appeso nel vuoto.
La cabina che stava scendendo verso Cavalese si schianta al suolo poco lontano dal greto del fiume Avisio, dopo essere precipitata nel vuoto per più di cento metri. Dopo la sciagura l’aereo militare con a bordo il cap.
Richard J. Ashby, pilota e comandante del velivolo; il cap. Joseph P. Schweitzer, navigatore e ufficiale numero uno alle contromisure elettroniche; il cap. William L. Raney, navigatore e il cap. Chandler P. Seagraves
, navigatore, rientra alla base di Aviano, senza neppure aver lanciato l’allarme e senza avvertire il suo comando di quanto accaduto.
L’unica preoccupazione del pilota e del secondo è quella i distruggere il nastro di una videocamera con la quale avevano ripreso tutte le pazzesche evoluzioni del loro velivolo. E, forse, sta proprio in quella videocamera la causa della tragedia: il cap. Richard J. Ashby, che stava per lasciare Aviano per rientrare in patria dove avrebbe cominciato a volare su F18, voleva portare con sé un ricordo del suo idiota “rambismo” in terra italica.



* Rugby in Rosa
mercoledì, gennaio 30, 2008, 8:18 am
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da repubblica.it

Rugby, rimmel e fango
le ragazze che fanno meta

di CORRADO SANNUCCI

ROMA – Gli uomini della mischia, dicono di se stesse quando s’ammucchiano contro le avversarie. Ma non sono uomini, sono donne. “E’ un modo di dire. Quello corretto, le donne della mischia, forse farebbe ridere”. Giuliana Campanella è arrivata da Auckland con i due figli per poter essere in campo venerdì a Dublino contro l’Irlanda nella prima partita del Sei Nazioni femminile di rugby.

“Quando prolungo l’allenamento e preparo qualche calcio tra i pali Patrick, che ha tre anni, mi fa ‘the last one, mommy, please’, mentre Chiara che ha sei mesi bruca il prato”. Daniela Gini è romana, capitana della Red&Blu, figlia di giocatore e moglie di giocatore, come gran parte di questa tribù di ragazze che è cresciuta con il rugby in famiglia. “Era il novembre 2005, sono andata in meta, mi si è storto il piede con frattura dei malleoli e del perone. Li ho rigirati, rimettendoli a posto con le mie mani. Al medico che mi portava fuori e scherzava ho detto: se non piango non vuol dire che non mi faccia male”. Daniela è la faccia glamour della nazionale, con un suo generoso decolletè ha fatto la sua apparizione-choc a una manifestazione nella provincia di Roma: possono essere così le giocatrici di rugby?, si chiedeva Gasbarra.

Il corto circuito tra bellezza e scontro fisico è tutto nella testa di chi sta fuori: per loro che in campo mettono la faccia è tutto normale. Rimmel e fango, tackle e biberon, il combattimento e la carezza, tutto stride con l’immagine della donna. Come stride Paola Zangirolami, 23 anni, da Monselice, uno scricchiolo di un metro e 60, con due occhi azzurri e i riccioli biondi, campione d’Italia con il Riviera del Brenta. E’ il talento dell’Italia del rugby, ma è con queste forze che dovremo combattere i donnoni del nord, le gigantesse inglesi e quegli altri personaggi sparsi nelle altre squadre come la famosa ‘Ugo’ della Francia o ‘Manolo’ della Spagna, così chiamate per la loro scarsa avvenenza.


I commenti più frequenti: ma che le donne giocano a rugby? Oppure: ma le donne devono stare a casa. Oppure: ma che mi stai a prendere in giro. La dimostrazione migliore sarebbe un placcaggio assassino lì sul posto, ma le ragazze fuori dal campo si inteneriscono. “Le belle sono belle e le brutte brutte. C’è chi ha figli e chi è ‘maschile’. Ma perché, gli altri sport non tolgono femminilità? Andate a vedere le botte che si danno in una partita di basket” dice Michela Tondinelli, mediano di apertura della Benetton, la squadra che ha introdotto il rugby femminile in Italia negli anni ’80, vincendo poi 19 scudetti consecutivi.

A ferirle non è il maschilismo estetico ma la clandestinità in cui vivono. Non ci sono televisioni per loro, niente dirette, quindi niente sponsor. La federazione le onora con una diaria di 26 euro al giorno: Daniela affida la figlia a nonni e zii, le altre prendono le ferie, e c’è chi non fa vacanza per lustri.
E’ ancora il mondo del dilettantismo puro e dell’allattamento a bordo campo. “Ma i nostri terzi tempi sono fantastici”, leggendario quello di Cagliari, dove le squadre ospiti della Grazia Deledda (come se la Roma o la Lazio si chiamassero Alberto Moravia) vengono festeggiate con malloreddus, culurgiones e seadas. Niente catering, tutto fatto in casa delle giocatrici.

E’ l’unica concessione alla cultura della donna così com’è stata codificata da chi la vuole casalinga e mamma: ma giocare a rugby è una forma di protesta o di emancipazione? “So soltanto che giocare vuol dire avere coraggio, mettersi alla prova, accettare le sfide. E poi ci piace il contatto fisico”, dice Daniela. Il piacere dell’uno contro uno contrapposto all’uno contro uno con il figlio o il marito: forse allenarsi a questo per quello o viceversa. I numeri del movimento rugbistico femminile però sono indicativi: le tesserate 4 anni fa erano 1000, oggi sono 4000, delle quali l’80% ragazze sotto i 16 anni, probabilmente arrivate al rugby dopo avere visto i fratelli Bergamasco nel Sei Nazioni.

Lo dicono tutte: il confronto con i maschi è sempre presente. Forse i numeri sono troppo piccoli per rivelare una tendenza sociologica ma è significativo un altro dato: sotto Roma non ci sono squadre ma sperdute unità, eroine sole in campi spelacchiati della Sicilia. “Una vergogna” mugugna Giuliana Campanella, che è messinese, protagonista di una stagione in cui a Messina una squadra, e forte, c’era. Giuliana vive nel paradiso del rugby: e avere un marito neozelandese aiuta nel babysitteraggio. La Zangirolami insegna e studia, la Gini è contabile, la Facchini è veterinario, le sorelle Schiavon, Veronica e Valentina, una laureata in lingue orientali, l’altra è imprenditrice. E’ un mondo colto, un’umanità diversa da quella delle veline o delle aspiranti al Grande Fratello. “Ragazze che vogliono apparire per gli altri. Che non rischiano le mani. Che non si sdraiano sulla compagna a terra per proteggerla” dice Daniela. Un mondo colto com’è nella tradizione del rugby, sport delle élite.

Quella volta Twickenham è stato il giorno di gloria della breve storia del rugby femminile: Lo Cicero e qualche altro, che avevano finito da poco la loro partita, si sono fermati a salutare, fare coraggio e a vedere qualche minuto della partita. Un riconoscimento che arriva dai maschi ma è già un inizio. L’impegno della Federugby viene definito da tutte “umano più che economico”: le ragazze arrivano al loro Sei Nazioni con solo una settimana di ritiro e nessuna amichevole di preparazione. Ma anche i maschi erano in queste condizioni cinquant’anni fa, senza risultati, senza soldi, senza tv.

“Siamo le più povere delle povere” dicono. In compenso la loro nazionale è la più italiana delle italiane, qui non ci sono equiparate o oriunde o mogli acquisite. Un problema c’è: le azzurre, a partire dalla Zangirolami, sono tutte troppo piccole. Ma le alte, in Italia, ormai vanno tutte a giocare a pallavolo. Basterebbe una vittoria per fare emergere le protagoniste di un mondo che è fatto di botte, di lividi che passano nella notte e il giorno dopo c’è il bambino da portare all’asilo o l’ufficio da raggiungere. Per ascoltare poi la solita frase: donne e rugby, ma che mi stai a prendere in giro?



Le marocchinate: la pagina nera della liberazione Alleata in Italia
martedì, gennaio 22, 2008, 2:34 PM
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 da pacioli.net

 Le marocchinate

Alberto Moravia ci scrisse un libro e Vittorio De Sica ne ricavò un film, La Ciociara, con Sofia Loren, dove si mostra lo stupro delle due protagoniste, madre e figlia. Dopo più di cinquant’anni si torna a parlare di «marocchinate».

Allora questa parola la usavano tutti e si capiva subito di cosa si parlava.

Con questo brutto termine vengono indicate quelle donne, ma anche bambini di entrambi i sessi, uomini, religiosi e in qualche caso animali, vittime delle violenze dei soldati marocchini del Corps expeditionnaire francais (Cef), comandati dal generale Juin. Furono migliaia.

Come afferma lo studioso belga Pierre Moreau: “Mai tali tragici avvenimenti sono stati menzionati dalla letteratura storica della seconda guerra mondiale, tanto in quella in lingua francese, quanto quella in lingua olandese ed inglese”. Invece è dimostrato che non fu solo la popolazione degli Aurunci a subire le violenze durante le famose cinquanta ore di «premio» promesse da Juin alle truppe se avessero sfondato la linea di Cassino, ma che il fenomeno partì dal luglio ’43 in Sicilia, attraversò il Lazio e la Toscana e terminò solo con il trasferimento del Cef in Provenza, nell’ottobre del ’44.

Un’altra fondamentale novità che la denuncia e gli studi apportano alla vulgata su questi fatti è che non furono solo i marocchini a macchiarsi di tali nefandezze, ma anche algerini, tunisini e senegalesi. Nonché «bianchi» francesi: ufficiali, sottufficiali e di truppa. E qualche italiano aggregato ai «liberatori».

Quando gli eserciti anglo americani giunsero nel gennaio del 1944 di fronte alla linea Gustav, i loro comandanti certamente non pensarono che la celere avanzata verso Roma, si sarebbe trasformata in una logorante e sanguinosa guerra di posizione.

Nei seguenti mesi invernali, infatti, il generale Harold Alexander, comandante in capo delle forze alleate in Italia, si ostinò ad attaccare frontalmente le difese tedesche nel settore di Cassino riuscendo a perdere nell’arco di tre distinte battaglie, che comportarono anche la distruzione della storica abbazia, oltre 60.000 uomini.

A fronte di questi evidenti insuccessi, nello studio tattico di quella che doveva essere la quarta ed ultima Battaglia per Cassino che portò all’occupazione angloamericana di Roma, il generale Alexander decise di tentare una manovra di aggiramento delle difese tedesche.

L’attacco si doveva sviluppare attraverso i monti Aurunici, partendo da Castelforte via Ausonia, monte Petrella, Esperia. Obiettivo finale: il paese di Pontecorvo e la via Casilina. Si sarebbe ottenuto così l’Aggiramento dei difensori di Montecassino.

A svolgere questo difficile e delicato compito furono chiamate le truppe del “Corps expeditionnaire Français” (C.E.F.) agli ordini del generale Alphonse Juin.

Le forze del C.E.F. comprendevano 99.000 uomini per la maggior parte marocchini e algerini provenienti dalle colonie francesi. Completava l’organico una piccola aliquota di senegalesi.

La caratteristica di queste truppe coloniali era l’eccellente addestramento nei combattimenti montani. «Vivere e battersi in montagna era qualcosa di naturale per questi soldati, e un terreno che altri avrebbero considerato un ostacolo era per i nordafricani un alleato».

Questi uomini «selvaggi avvolti in luridi barracani, che per mesi, per impedire che compissero violenze sessuali ai danni delle popolazioni civili, erano stati sottoposti al coprifuoco, ed impediti ad uscire dai loro accampamenti recintati con filo spinato», erano denominati “goumiers”, in quanto non erano inquadrati in formazioni regolari, ma organizzati in “goums”, ossia gruppi composti da una settantina di uomini, molto spesso legati tra loro da vincoli di parentela.

All’alba del giorno scelto per l’attacco, il 14 maggio 1944, il generale Juin inoltrò agli uomini della IIa divisione di fanteria (gen. Dody) e della IVa divisione da montagna (gen. Guillaume) il seguente proclama: «Soldati! Questa volta non è solo la libertà delle vostre terre che vi offro se vincerete questa battaglia. Alle spalle del nemico vi sono donne, case, c’è un vino tra i migliori del mondo, c’è dell’oro. Tutto ciò sarà vostro se vincerete. Dovrete uccidere i tedeschi fino all’ultimo uomo e passare ad ogni costo. Quello che vi ho detto e promesso mantengo. Per cinquanta ore sarete i padroni assoluti di ciò che troverete al di là del nemico. Nessuno vi punirà per ciò che farete, nessuno vi chiederà conto di ciò che prenderete».

Tale allucinante promessa venne purtroppo rispettata alla lettera.

 

Nei giorni che seguirono la battaglia, terminata il 17 maggio con la caduta di Esperia, i 7.000 “goumiers” sopravvissuti (erano partiti all’attacco in 12.000) devastarono, rubarono, razziarono, uccisero, violentarono. Circa 3.500 donne, di età compresa tra gli 8 e gli 85 anni, vennero brutalmente stuprate. Vennero sodomizzati circa 800 uomini, tra cui anche un prete, don Alberto Terrilli, parroco di Santa Maria di Eperia, il quale morì due giorno dopo a causa delle sevizie riportate. Molti uomini che tentarono di proteggere le loro donne vennero impalati.

In una relazione degli anni ’50, che alla luce di recenti ricerche riporta dei dati per difetto, testualmente si legge: «circa 2.000 donne oltraggiate, di cui il 20 per cento affette da sifilide, il 90 per cento da blenorragia; molti i figli nati dalle unioni forzose, Il 40 per cento degli uomini contagiati dalle mogli, oltre 800 assassinati perché accorsi a difendere l’onore delle loro madri, mogli, figlie. L’81 per cento dei fabbricati distrutto, il 90 per cento del bestiame sottratto; gioielli, abiti e denaro totalmente rubati».

La prima notizia di un loro stupro è dell’11 dicembre 1943; si tratta di 4 casi che coinvolgevano – secondo fonti americane – i soldati della 573° compagnia comandata da un sottotente francese «che sembrava incapace di controllarli». Notin annota: «sono i primi echi di comportamenti reali, o più spesso immaginari, di cui saranno accusati i marocchini».

Tanto immaginari però non dovevano essere se, già nel marzo 1944, De Gaulle, durante la sua prima visita al fronte italiano, parla di rimpatriare i goums (o goumiers, come venivano chiamati) in Marocco e impegnarli solo per compiti di ordine pubblico.

In quello stesso mese gli ufficiali francesi chiesero insistentemente di rafforzare il contingente di prostitute al seguito delle le truppe nordafricane: occorreva ingaggiare 300 marocchine e 150 algerine; ne arrivarono solo 171, marocchine.

Dopo lo sfondamento della linea Gustav, la «furia francese» travolse soprattutto il paesino di Esperia, che aveva come unica colpa quella di essere stato sede del quartier generale della 71° divisione tedesca. Tra il 15 e il 17 maggio oltre 600 donne furono violentate; identica sorte
subirono anche numerosi uomini e lo stesso parroco del paese.

Il 17 maggio, i soldati americani che passavano da Spigno sentirono le urla disperate delle donne violentate: al sergente Mc Cormick che chiedeva cosa fare, il sottotenente Buzick rispose: «credo che stiano facendo quello che gli italiani hanno fatto in Africa».

Ma gli alleati erano sinceramente scandalizzati: un rapporto inglese parlava di donne e ragazze, adolescenti e fanciulli stuprati per strada, di prigionieri sodomizzati, di ufficiali evirati.

Pio XII sollecitò (il 18 giugno) De Gaulle in questo senso, ricevendone una risposta accorata
accompagnata da un’ira profonda che si riversò sul generale Guillaume, capo dei «marocchini». Si mosse la magistratura militare francese: fino al 1945 furono avviati 160 procedimenti giudiziari che
riguardavano 360 individui; ci furono condanne a morte e ai lavori forzati.

A queste cifre sicure occorre aggiungere il numero, sconosciuto, di quanti furono colti sul fatto e fucilati immediatamente (15 «marocchini» solo il 26 giugno). Si tratta comunque di alcune centinaia di casi.

Le fonti italiane danno cifre molto diverse. Una ricerca in merito parla di 60 mila donne stuprate. Un numero enorme, spaventoso. In realtà la stima delle vittime non è chiara, ci si basa principalmente sulle richieste di indennizzo delle quali non si conosce la veridicità.

Fu proprio a Esperia che nacquero le prime voci sulla «carta bianca».

Resta il fatto che la disposizione dei francesi nei nostri confronti non era delle migliori: nessuno aveva dimenticato la pugnalata alle spalle del 10 giugno 1940, il bombardamento di Blois senza necessità militari, i mitragliamenti delle colonne di rifugiati a sud della Loira . Però pur ammettendo una certa riluttanza delle autorità francesi nel punire le violenze, la disparità con le cifre di parte italiana resta enorme.

Questi dati si fondano sulle 60 mila richieste di indennizzo presentate dalle donne italiane. I francesi pagarono da un minimo di 30 mila a un massimo di 150 mila fino al 1 agosto 1947.

Da quel momento a pagare fu lo Stato italiano, stornando i fondi dai 30 miliardi dovuti alla Francia per le riparazioni di guerra. Molti problemi nacquero dal fatto che le donne, oltre all’indennizzo, chiesero anche la pensione come vittime civili di guerra e che per legge i due benefici non erano cumulabili. Ne scaturì un groviglio di questioni burocratiche, ritardi, lamentele.

A organizzare le proteste furono soprattutto le comuniste dell’Udi. Nel 1951 un’affollatissima assemblea di donne in un cinema di Pontecorvo affrontò la questione delle marocchinate, provocando un infuocato dibattito parlamentare. Ma, indipendentemente dalle ragioni dell’«uso pubblico della storia», in tutta quella vicenda restano interrogativi pesanti e angosciosi.
Ammettere di essere stata stuprata è per una donna un’esperienza devastante. Eppure furono in 60 mila a farlo. La spiegazione di Notin è raggelante. Su quegli stupri furono messe in giro molte «voci».

Nei paesi colpiti spesso furono i sindaci a raccogliere le richieste di indennizzo e, nell’interesse
della comunità, si arrivò a dichiarare la violenza anche quando non era stata subita. Il fatto è che la miseria travolse anche il pudore e le 60 mila marocchinate furono costrette a scegliere lo scandalo e
la vergogna di uno stupro «falso» per ottenere i soldi «veri» che servivano alle loro famiglie e alla loro comunità.

Sin qui, dunque, la tragica cronaca dei fatti.

De Gaulle stringe la mano a un membro dei goum

Mentre precedentemente si individuò come unico e solo responsabile il Generare Juin, oggi si può senz’altro affermare che le maggiori responsabilità ricadono su ben altre persone, quali il generale De Gaulle diretto superiore di Juin ed il ministro degli affari economici del governo francese in esilio a Londra, André Diethelm, che nei giorni del terrore “goumiers” si trovavano in Ciociaria per la precisione ad Esperia. Non poterono quindi non vedere come si comportarono i loro coloniali!

Altrettanto evidente, a chi guardi ai fatti con obiettività, è la responsabilità del Generare Harold Alexander, che sentitosi chiedere da Juin l’autorizzazione a mettere in pratica tale scellerato disegno, anziché farlo immediatamente arrestare, diede il suo consenso, limitandosi a contrattare il termine temporale dello scempio (50 ore) senza curarsi minimamente della sorte delle inermi popolazioni. «Per lui l’impresa dei goumiers significava soltanto aver fatto una breccia nelle difese tedesche, attraverso la quale far passare comodamente gli inglesi della 78a divisione, tenuta sinora di riserva»

A fronte di quanto detto, si può certamente sostenere che non si trattò di azioni casuali e sporadiche, derivanti da una concezione ancestrale e tribale della guerra propria dei nordafricani, come qualcuno in passato ha affermato.

Vista la presenza in quei luoghi del comandante del Comitato di Liberazione Nazionale francese (De Gaulle), di un ministro del governo francese (Diethelm), e visto il consenso di Alexander, anche se mancano prove documentali, non si può non esser legittimati a pensare che tale infame azione possa essere stata pianificata direttamente al tavolo dello stato maggiore alleato.

Ancor più comprensibile è che le istituzioni repubblican-resistenziali abbiano relegato per 50 anni questi episodi in un angolo oscuro della storia, viste le evidenti e dirette responsabilità nei fatti sommariamente descritti.

Non si deve dimenticare che il 13 ottobre del 1943 il governo Badoglio dichiarò guerra alla Germania, divenendo il cobelligerante degli angloamericani, e dunque  corresponsabile delle azioni dello stato maggiore alleato.

A riprova di quanto affermato, sta il fatto che, per quanto se ne sa, in merito a questi episodi mai fu sollevata una protesta da parte del governo di Unità Nazionale presieduto da Ivanoe Bonomi, così come del resto nulla è stato fatto dai vari governi nei 50 anni successivi, per “loro” i fatti della Ciociaria non sono mai accaduti.

A tanti anni di distanza questo crimine, così come tanti altri, le foibe, il massacro dei bimbi di Gorla, il lancio delle penne esplosive e delle bombe a farfalla, i delitti commessi dai partigiani, non possono essere taciuti solamente perché commessi dalla parte vincitrice.



Sbuca il Golpe Nato dopo quello di Borghese. Italia come il sud america
mercoledì, gennaio 16, 2008, 7:06 PM
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Dalle carte segrete del Foreign Office
l’idea di un colpo di Stato in Italia
Repubblica ha trovato e può rendere noti testi elaborati nel 1976
in cui s’ipotizzava il “Coup d’Etat”, poi scartato perché “irrealistico”
di FILIPPO CECCARELLI
 

A mali estremi, estremi rimedi. Anche questo fu la guerra fredda in Italia, là dove il male estremo, più che una generica idea di comunismo, era la concretissima possibilità che il Partito comunista italiano andasse al potere.

Era il 1976, l’anno delle elezioni più drammatiche dopo quelle del 1948. Ebbene: dinanzi al male assoluto che un governo con il Pci avrebbe arrecato al sistema di sicurezza dell’Alleanza atlantica, nel novero degli estremi e possibili rimedi il fronte occidentale, le potenze alleate e in qualche misura la Nato presero in considerazione anche l’ipotesi di un colpo di Stato. Un “coup d’Etat”, letteralmente: alla francese. Eventualità scartata in quanto “irrealistica” e temeraria.

Nei documenti britannici di cui Repubblica è venuta in possesso grazie alla norma che libera dal segreto le carte di Stato dopo trent’anni, ce n’è uno del 6 maggio 1976, ovviamente super-segreto, elaborato dal Planning Staff del Foreign Office, il ministero degli esteri inglese, e intitolato “Italy and the communists: options for the West”. All’inizio di pagina 14, tra le varie opzioni, si legge in maiuscolo: “Action in support of a coup d’Etat or other subversive action”. Il tono del testo è distaccato e didattico: “Per sua natura un colpo di Stato può condurre a sviluppi imprevedibili. Tuttavia, in linea teorica, lo si potrebbe promuovere. In un modo o nell’altro potrebbe presumibilmente arrivare dalle forze della destra, con l’appoggio dell’esercito e della polizia. Per una serie di motivi – continua il documento – l’idea di un colpo di Stato asettico e chirurgico, in grado di rimuovere il Pci o di prevenirne l’ascesa al potere, potrebbe risultare attraente. Ma è una idea irrealistica”. Seguono altre impegnative valutazioni che ne sconsiglierebbero l’attuazione: la forza del Pci nel movimento sindacale, la possibilità di una “lunga e sanguinosa” guerra civile, l’Urss che potrebbe intervenire, i contraccolpi nell’opinione pubblica dei vari paesi occidentali. E dunque: “Un regime autoritario in Italia – concludono gli analisti del Western European Department del Foreign and Commonwealth Office (Fco) – risulterebbe difficilmente più accettabile di un governo a partecipazione comunista”.


In politica estera i documenti diplomatici, specie se a uso interno, hanno una loro fredda determinazione. Gli interessi sono nudi, non di rado venati di cinismo. Questi che raccontano la crisi italiana prima e dopo le elezioni del 20 giugno 1976 provengono dai faldoni desecretati dell’archivio del premier britannico e del ministero degli esteri. Sono centinaia e centinaia di fogli: corrispondenza fra i grandi del mondo occidentale, resoconti di riunioni e incontri, analisi di rischio, lettere di accompagnamento, policy papers, telegrammi, schede, studi comparati (l’Italia come il Portogallo della rivoluzione dei garofani, ad esempio), relazioni dirette alle ambasciate di Sua Maestà a Roma, Parigi, Bonn, Washington e Bruxelles, quartier generale della Nato.

In questo abbondante materiale non c’è, ovviamente, solo la rivelazione del golpe. Eppure, mai come in queste testimonianze scritte il “Fattore K”, come “Kommunism”, cioè l’impossibilità per il Pci di essere accettato al governo nel quadro degli equilibri decisi a Yalta, trova la sua più realistica rappresentazione. E al massimo livello. Ad esempio. Grazie all’ambasciatore americano a Londra, Elliot L. Richardson, si viene a conoscere il testo di una lettera privata che il Segretario di Stato Henry Kissinger scrive in gennaio all’allora presidente dell’Internazionale socialista Willy Brandt a proposito della crescita comunista in Italia, Spagna e Portogallo: “Ho il dovere di esprimere la mia forte preoccupazione per la situazione che si è venuta a creare. La natura politica della Nato sarebbe destinata a cambiare se uno o più tra i paesi dell’Alleanza dovessero formare dei governi con una partecipazione comunista, diretta o indiretta che sia. L’emergere dell’Urss come grande potenza nello scenario mondiale continua a essere motivo di inquietudine. Il ruolo della Nato, così come la nostra immutata posizione militare in Europa, è indispensabile e cruciale. La mia ansia consiste nel fatto che questi punti di forza saranno messi in pericolo nel momento in cui i partiti comunisti raggiungeranno posizioni influenti nell’Europa occidentale”.

Dei vari protagonisti Kissinger è senz’altro il più caparbio e intransigente. Mentre i vertici della Nato sono fin dall’inizio i più irrequieti. Scrivono il 25 marzo dal ministero della Difesa britannica ai colleghi degli Esteri: “La presenza del Pci nel governo italiano e conseguentemente l’accresciuta minaccia di sovversione comunista potrebbero collocare l’Alleanza e l’Occidente dinanzi alla necessità di prendere una decisione grave”. È chiaro che la partita va ben oltre le faccende italiane: “L’arrivo al potere dei comunisti – si legge in un documento interno del Fco – costituirebbe un forte colpo psicologico per l’Occidente. L’impegno Usa verso l’Europa finirebbe per indebolirsi, potrebbero così sorgere tensioni gravi fra gli americani e i membri europei della Nato su come trattare gli italiani”. Ma al tempo stesso c’è il rischio che un governo con Berlinguer sconvolga gli equilibri consolidati da trent’anni di guerra fredda creando problemi anche all’Urss, e qui i diplomatici inglesi sottolineano il pericolo che “le idee riformiste si diffondano in Russia e nell’Europa dell’Est”. Il Pci di Berlinguer, e più in generale quello che allora andava sotto il nome di “eurocomunismo”, costituisce a loro giudizio una vera e propria “eresia revisionista” e il suo sbocco governativo porterebbe il dibattito teorico della chiesa marxista sul terreno della politica reale. Il Pcus ha tutte le ragioni per temere il “contagio” di un “comunismo alternativo” al potere in occidente. E tuttavia, secondo altre analisi, su un piano più immediatamente geopolitico e militare per l’Urss “i vantaggi supererebbero di gran lunga gli svantaggi, specie in relazione all’indebolimento della Nato”.

 Henry Kissinger con il premier inglese James Callaghan

E insomma, sarebbe un evento “catastrofico”. La parola risuona più e più volte nei papers in attesa delle elezioni italiane. Da Bruxelles, soprattutto, fanno presente che il tempo stringe e per questo occorre prepararsi al peggio. “La presenza di ministri comunisti nel governo italiano porterebbe a un immediato problema di sicurezza nell’Alleanza – scrive a Londra l’ambasciatore inglese alla Nato, John Killick – Qualunque informazione in mano ai comunisti dovrà essere automaticamente considerata a rischio. I comunisti al potere altro non sono che l’estensione di una minaccia contro la quale la Nato si batte. Dunque, è preferibile una netta amputazione (dell’Italia, ndr) piuttosto che una paralisi interna”.

La questione vitale riguarda la sicurezza nucleare, quindi la dislocazione e la custodia delle bombe atomiche: anche senza ministri comunisti alla Difesa e agli Esteri, un’Italia governata dal Pci va comunque esclusa dal Nuclear Planning Group: “Per dirla con parole crude – chiarisce il Ministero della Difesa – il rischio è che i documenti sensibili finiscano a Mosca”. Altri problemi hanno a che fare con le basi militari e navali della Nato nella penisola: “Considerata l’alta percentuale degli italiani che votano Pci, è quasi certo che alcuni simpatizzanti di questo partito hanno già penetrato il quartier generale della Nato a Napoli (Afsouth). Sul lungo termine il Pci potrebbe accentuare lo spionaggio oppure spingere per rimpiazzare gradualmente i funzionari nei posti chiave dell’Alleanza con elementi comunisti”. A parte gli scioperi, i blocchi e le manifestazioni che potrebbero essere organizzate attorno alle installazioni militari. In caso di guerra, possono nascere problemi seri: “La perdita del quartier generale di Napoli, ad esempio, avrebbe un effetto negativo sulle operazioni della Sesta Flotta nel Mediterraneo Orientale”.

Il sistema di edifici in vetro, acciaio e cemento che ospita i National Archives a Kew Gardens, venti minuti di metropolitana a sud di Londra, sembra una via di mezzo tra una serra e una pagoda. Qui dentro sono conservati circa trenta milioni di record, dall’alto medioevo ai giorni nostri. Intorno, cottage, boschi, giardini e un piccolo lago artificiale popolato da oche e anatre. Nell’immensa reading room climatizzata, insonorizzata e strettamente sorvegliata da telecamere e dal personale in elegante giacca blu, il ricercatore Mario J. Cereghino ha passato varie settimane. Su uno dei grandi tavoli esagonali in legno scuro si sono via via ammonticchiati fascicoli su fascicoli, tutti originali, ingialliti dal tempo. Trent’anni e oltre: è attraverso queste carte che si può osservare, come mai finora, il backstage della guerra fredda.

L’Italia del 1976, come si sarà capito, è un paese in crisi. La formula del centrosinistra è morta; i comunisti hanno ottenuto un grande successo alle amministrative dell’anno prima conquistando il governo di diverse regioni e importanti città; il Psi, di cui è segretario l’anziano De Martino, ha aperto la crisi al buio; mentre ancora tramortita dalla sconfitta nel referendum sul divorzio e sotto accusa per una serie di scandali, la Dc sembra per la prima volta allo sbando, più che divisa, divorata dalle faide. A reggere le sorti del governo nei primi mesi dell’anno c’è un pallido bicolore Moro-La Malfa, cui segue, per gestire le elezioni anticipate, un ancora più esangue monocolore sempre diretto da Moro. La maggioranza è in pezzi, Berlinguer appare il personaggio del momento e da anni ormai ha posto sul tavolo l’offerta del Compromesso storico.

L’ambasciatore britannico a Roma, Sir Guy Millard, è un uomo molto sottile e per giunta dotato di una buona penna. “Berlinguer – scrive a Londra, al Segretario di Stato – è una figura attraente, ispira fiducia con la sua oratoria. Ciò che dice è credibile e lui lo afferma in modo convincente”. Ma proprio per questo non c’è da fidarsi. “Il suo ingresso nel governo porrebbe la Nato e la Comunità europea dinanzi a un problema serio e potrebbe rivelarsi un evento dalle conseguenze catastrofiche”. Quali Millard lo spiega in modo incalzante: la “disintegrazione” della Dc, innanzi tutto, poi il calo degli investimenti, la fuga dei capitali, la caduta di fiducia nelle imprese, l’intervento drastico del governo nello Stato e di conseguenza “la rapida fine del sistema di libero mercato”. Cosa fare per tenere il Pci alla larga dal governo? “Non molto, temo”. E aggiunge: “È un peccato che la difesa dell’Italia dal comunismo sia nelle mani di un partito così carente come la Dc”.

Dello scudo crociato, dopo il congresso che a marzo ha visto la vittoria di Benigno Zaccagnini su Arnaldo Forlani, Millard va a parlare con l’ambasciatore americano a Roma John Volpe. Secondo quest’ultimo, Forlani “è una brava persona, ma non è un combattente”, Zac invece “piace molto ai giovani”, gli Usa lo appoggiano anche se preferirebbero Forlani e Fanfani che sono più anticomunisti. Parlano anche di Moro: “Qualche volta – sostiene Millard – sembra piuttosto ambiguo sul Compromesso storico”. Volpe concorda: “È un pessimista, troppo incline a ritenerlo inevitabile”. È questa specie di rassegnazione la colpa che gli americani attribuiscono all’astuta, ma imbelle classe di governo democristiana. In un rapporto del 23 marzo si legge che al Dipartimento di Stato Usa sono molto preoccupati: “La situazione italiana va deteriorandosi e non si sa come agire”. Di qui al sospetto che la Dc faccia il doppio gioco il passo è breve: “Piuttosto che perdere il potere, preferirebbe spartirlo con il Pci”.

Ai primi di aprile il rappresentante britannico presso la Santa Sede, Dugald Malcolm, va a trovare il Patriarca di Venezia, monsignor Albino Luciani, il futuro Giovanni Paolo I: “Il Patriarca sembra aver assunto una posizione incline alla catastrofe. L’argomento trattato era sempre uno: l’avanzata del Pci”. È il periodo in cui i comunisti italiani corteggiano i cattolici (alcuni di questi finiranno eletti nelle loro liste di lì a qualche mese). Su questo Luciani è intransigente: “Non si può essere al contempo cristiani e marxisti”. Al diplomatico inglese racconta di aver dei problemi con alcuni sacerdoti della sua diocesi “che si sentono in obbligo di convertirsi al comunismo”. In un’isola della laguna un gruppo di scout ha addirittura sostituito il crocifisso con la foto di Mao. Nel congedarsi, il prossimo pontefice sussurra: “Siamo nella mani di Dio”. E aggiunge: “Che comunque sono buone mani”.



La vita di Berlusconi
domenica, dicembre 16, 2007, 9:47 PM
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da berluscastop.it 

VITA DI BERLUSCONI. CRONOLOGIA
 
1936. Nasce a Milano il 29 settembre, primo di tre figli (due maschi e una femmina) di Luigi Berlusconi, impiegato alla Banca Rasini, e Rosa Bossi, casalinga.
 
1954.Prende la maturità classica al liceo salesiano Copernico e s’iscrive all’Università Statale, facoltà di Giurisprudenza. A tempo perso, vende spazzole elettriche porta a porta, fa il fotografo ai matrimoni e ai funerali, suona il basso e canta nella band dell’amico d’infanzia Fedele Confalonieri (anche sulle navi da crociera).
 
1957. Primo impiego saltuario nella Immobiliare costruzioni.
 
1961. Si laurea in legge con 110 e lode, a Milano: tesi sugli aspetti giuridici del contratto pub- blicitario, e vince una borsa di studio di 2 milioni messa in palio dalla concessionaria Manzoni. Evita, non si sa come, il servizio militare. E si dà all’edilizia, acquistando un terreno in via Alciati, grazie alla garanzia fornitagli dal banchiere Carlo Rasini, che gli procura anche un socio, il costruttore Pietro Canali. Nasce la Cantieri Riuniti Milanesi.
 
1963. Fonda la Edilnord Sas: soci accomandanti Carlo Rasini e il commercialista svizzero Carlo Rezzonico (per la misteriosa finanziaria luganese Finanzierungesellschaft für Residenzen Ag). Nel 1964 apre un cantiere a Brugherio per edificare una città-modello da 4 mila abitanti. Nel 1965 è pronto il primo condominio, di cui però non riesce a vendere nemmeno un appartamento. Poi, non si sa come, riesce a venderlo al Fondo di previdenza dei dirigenti commerciali.
 
1965.Sposa Carla Elvira Dall’Oglio, genovese, che gli darà due figli: Maria Elvira (che si fa chiamare Marina – 1966) e Piersilvio (1969).
 
1968. Nasce l’Edilnord 2, acquistando terreni nel comune di Segrate, dove sorgerà Milano 2.
 
1969. Brugherio è completa con 1000 appartamenti venduti.
 
1973. Fonda la Italcantieri Srl, grazie ad altre due misteriose fiduciarie ticinesi, la Cofigen (legata al finanziere Tito Tettamanti) e la Eti AG Holding (amministrata dal finanziere Ercole Doninelli). Acquista ad Arcore, grazie ai buoni uffici dell’amico Cesare Previti, la villa Casati Stampa con tutti i terreni ad Arcore, a prezzo di superfavore. Previti infatti è pro-tutore dell’unica erede dei Casati Stampa, la contessina dodicenne Annamaria, e >contemporaneamente amico di Silvio e in affari con lui.
 
1974. Grazie a due fiduciarie della Bnl, la Servizio Italia e la Saf, nasce l’Immobiliare San Martino, amministrata da un ex compagno di università, Marcello Dell’Utri, palermitano. In un condominio di Milano 2 nasce una tv via cavo, Telemilano 58, che passerà ben presto all’etere col nome di Canale 5. Berlusconi si trasferisce con la famiglia a villa Casati, affiancato dal boss mafioso Vittorio Mangano, assunto in Sicilia da Dell’Utri come “fattore”, cioè come amministratore della casa e dei terreni. Mangano lascerà Arcore soltanto un anno e mezzo – due anni più tardi, in seguito a due arresti e a un’inchiesta a suo carico per il sequestro di un ospite della villa amico di Berlusconi.
 
1975. Le due fiduciarie danno vita alla Fininvest. Nascono anche la Edilnord e la Milano 2. Ma Berlusconi non compare mai: inabissato e schermato da una miriade di prestanomi dal 1968 al 1975, quando diventa presidente di Italcantieri, e al 1979, quando assumerà la presidenza della Fininvest.
 
1977. Appena divenuto Cavaliere del Lavoro, acquista una quota dell’editrice de Il Giornale , fondato nel 1974 da Indro Montanelli.
 
1978-1983. Riceve circa 500 miliardi al valore di oggi, di cui almeno una quindicina in contanti, per alimentare le 24 (poi salite a 37) Holding Italiana che compongono la Fininvest, di cui si ignora tutt’oggi la provenienza. Sono gli anni della scalata di Bettino Craxi, segretario del Psi dal 1976, al potere e della sua ascesa al governo.
 
1978. Si affilia alla loggia massonica deviata e occulta “Propaganda 2” (P2) del maestro venerabile Licio Gelli, a cui è stato presentato dal giornalista Roberto Gervaso. Tessera numero 1816. Di lì a poco comincerà a ricevere crediti oltre ogni normalità dal Monte dei Paschi e dalla Bnl (due banche con alcuni uomini-chiave affiliati alla P2). E inizierà a collaborare, con commenti di politica economica, al “Corriere della Sera”, controllato dalla P2 tramite Angelo Rizzoli e Bruno Tassan Din. La P2 verrà poi sciolta, in quanto “eversiva”, con un provvedimento del governo Spadolini.
 
1980. Berlusconi fonda, con Marcello Dell’Utri, Publitalia 80, la concessionaria pubblicitarie per le reti tv. Conosce l’attrice Veronica Lario, al secolo Miriam Bartolini, che recita in uno spettacolo al teatro Manzoni di >Milano senza veli. Se ne innamora. La nasconde per tre anni in un’ala segreta della sede Fininvest in Via Rovani a Milano. Poi la donna rimane incinta e nel 1984, sempre nel segreto più assoluto, partorisce in Svizzera una bambina, Barbara. Berlusconi la riconosce. Padrino di battesimo, Bettino Craxi.
 
1981. I giudici milanesi Gherardo Colombo e Giuliano Turone, indagando sui traffici del bancarottiere mafioso e piduista Michele Sindona, trovano gli elenchi degli affiliati alla loggia P2. Ma Berlusconi non subisce danni dallo scandalo che travolge il governo, l’esercito, i servizi segreti e il mondo del giornalismo.
 
1982. Berlusconi acquista l’emittente televisiva Italia 1 dall’editore Edilio Rusconi.
 
1984. Berlusconi acquista l’emittente Rete 4 dalla Mondadori: ormai è titolare di tre network televisivi nazionali, e può entrare in concorrenza diretta con la Rai. Ma tre pretori, di Torino, Pescara e Roma, sequestrano gli impianti che consentono le trasmissioni illegali di programmi in “interconnessione”, cioè in contemporanea su tutto il territorio nazionale. Craxi vara un decreto urgente (il primo “decreto Berlusconi”) per legalizzare la situazione illegale. Ma il decreto non viene convertito in legge perché incostituzionale. Craxi ne vara un altro (il secondo “decreto Berlusconi”), minacciando i partiti alleati di andare alle elezioni anticipate in caso di nuova bocciatura del decreto. E nel febbraio ’85 il decreto sarà approvato, dopo che il governo avrà posto la questione di fiducia.
 
1985. Berlusconi divorzia da Carla Dell’Oglio e ufficializza il legame con Veronica, che gli darà altri due figli: Eleonora (1986) e Luigi (1988). Le seconde nozze verranno celebrate, con rito civile, nel 1990, officiante il sindaco socialista di Milano Paolo Pillitteri, cognato di Craxi. Testimoni degli sposi, Bettino e Anna Craxi, Confalonieri e Gianni Letta.
 
1986. Berlusconi acquista il Milan Calcio e ne diviene presidente (nel 1988 vincerà il suo primo scudetto). Intanto fallisce l’operazione La Cinq in Francia, che chiuderà definitivamente i battenti nel ’90. E’ Jacques Chirac a cacciarlo dal suolo francese, definendolo “venditore di minestre”.
 
1988. Il governo De Mita annuncia la legge Mammì sul sistema radiotelevisivo. Che in pratica fotografa il duopolio Rai-Fininvest, senza imporre al Cavaliere alcun autentico tetto antitrust. Berlusconi acquista la Standa. La legge verrà approvata nel 1990.
 
1989-1991. Lunga battaglia fra Berlusconi e De Benedetti per il controllo della Mondadori, la prima casa editrice che controlla quotidiani (La Repubblica e 13 giornali locali), settimanali (Panorama, Espresso, Epoca) e tutto il settore libri Grazie a una sentenza del giudice Vittorio Metta, che il tribunale di Milano riterrà poi comprata con tangenti dall’avvocato Previti per conto di Berlusconi, il Cavaliere strappa la Mondadori al suo concorrente. Una successiva mediazione politica porterà poi alla restituzione a De Benedetti almeno di Repubblica, Espresso e giornali locali. Tutto il resto rimarrà a Berlusconi.
 
1990. Il Parlamento vara la legge Mammì, fra le polemiche: Berlusconi può tenersi televisioni (nel frattempo è entrato anche nel business di Telepiù) e Mondadori, dovendo soltanto “spogliarsi” de Il Giornale (che viene girato nel ’90 al fratello Paolo).
 
1994. Berlusconi, ormai orfano dei partiti amici, travolti dallo scandalo di Tangentopoli, entra direttamente in politica, fonda il partito di Forza Italia, vince le elezioni politiche del 27 marzo alla guida del Polo delle Libertà e diventa presidente del Consiglio. Il 21 novembre viene coinvolto nell’inchiesta sulle tangenti alla Guardia di Finanza. Il 22 dicembre è costretto a dimettersi, per la mozione di sfiducia della Lega Nord, che non condivide più la sua politica sociale e preme per la risoluzione del conflitto d’interessi.
 
1996. Berlusconi, indagato nel frattempo anche per storie di mafia, falso in bilancio, frode fiscali e soprattutto corruzione giudiziaria insieme a Previti, si ricandida alle elezioni politiche, ma perde. Vince il candidato del centrosinistra (Ulivo), Romano Prodi. Trascorrerà 5 anni all’opposizione, alle prese con una serie di inchieste giudiziarie e di processi, conclusi con diverse condanne in primo grado, poi trasformate in prescrizioni e (raramente) in assoluzioni in appello e in Cassazione.
 
2001. Il 15 maggio vince le elezioni alla guida della Casa delle Libertà e torna alla presidenza del Consiglio.



Roberto Calvi: il socio del Vaticano
domenica, dicembre 16, 2007, 9:36 PM
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Roberto Calvi

Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.

Vai a: Navigazione, cercaRoberto Calvi (Milano13 aprile 1920 – Londra17 giugno 1982) è stato un banchiere e finanziere italiano.La sua carriera iniziò nel 1947, quando entrò nel Banco Ambrosiano, banca privata strettamente legata all’Istituto per le Opere di Religione (IOR), in qualità di semplice impiegato, salvo riuscire, nell’arco di una trentina d’anni, a giungere prima la carica di direttore generale nel 1971 e poi quella di presidente nel 1975, carica quest’ultima tramite la quale riuscì ad avviare una serie di speculazioni finanziarie per lanciare il Banco Ambrosiano nella finanza internazionale. Fondamentali, a questo scopo, le amicizie con membri della loggia massonica segreta P2 (di cui in seguito fece parte) e i rapporti con esponenti del mondo degli affari e della mafia.[citazione necessaria]In poco tempo divenne uno dei finanzieri più aggressivi, intrecciando una fitta rete di società create in paradisi fiscali con lo IOR, la banca vaticana: acquistò la Banca del Gottardo, una banca svizzera; fondò una finanziaria in Lussemburgo, la Banco Ambrosiano Holding; con l’arcivescovo Paul Marcinkus fondò la Cisalpine Overseas, nelle Bahamas; insieme al tecnico informatico Gerard Suisson (che morì a 40 anni in un Club Mediterranée in Corsica), Calvi ideò un meccanismo di compensazione dei conti fra istituzioni bancarie. Gli obblighi internazionali di riserva frazionaria vennero in questo modo applicati solo al saldo dei crediti tra due banche, a quella delle due che ha il saldo positivo (saldo creditore).In seguito Calvi si fece ancora più spregiudicato: costruì società fantasma nei paradisi fiscali per aumentare gli introiti del Banco Ambrosiano, poi arrivò addirittura a finanziare alcune dittature del Sudamerica.[citazione necessaria] Nel 1968 conobbe Michele Sindona divenendone socio in affari; nel 1975 Sindona gli presentò Licio Gelli e Calvi entrò nella loggia P2.

Le crisi del Banco Ambrosiano La prima crisi del Banco risale al 1977. All’alba del 13 novembre Milano si svegliò tappezzata di cartelloni in cui si denunciavano presunte irregolarità del Banco Ambrosiano. Artefice del gesto era stato Michele Sindona, che voleva vendicarsi di Calvi, cui aveva chiesto senza successo i soldi per “tappare i buchi” delle sue banche.Per alcuni mesi, a partire dal 17 aprile 1978, alcuni ispettori della Banca d’Italia analizzarono la situazione del Banco Ambrosiano e denunciarono molte irregolarità, segnalate al giudice Emilio Alessandrini, il quale venne però ucciso subito dopo da un commando di terroristi di estrema sinistra appartenenti a Prima Linea. Era il 29 gennaio 1979. Il 24 marzo il governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi e il capo dell’Ufficio Vigilanza Mario Sarcinelli, artefici dell’ispezione, vennero accusati dai magistrati Luciano Infelisi e Antonio Alibrandi di alcune irregolarità e posti agli arresti (domiciliari per Baffi), salvo essere completamente prosciolti nel 1983, in seguito all’accertamento dell’assoluta infondatezza delle accuse mosse a loro carico.In seguito il Banco si trovò ad affrontare una prima crisi di liquidità, che risolse ricevendo finanziamenti dalla BNL e dall’ENI per circa 150 milioni di Dollari, mentre una seconda crisi di liquidità nel 1980 fu risolta grazie a un nuovo finanziamento dell’ENI di 50 milioni di Dollari, per ottenere i quali Calvi pagò tangenti a Claudio Martelli e Bettino Craxi.[citazione necessaria] Il “castello di carte” dell’Ambrosiano crollò nel 1981 con la scoperta della loggia P2 che lo proteggeva: Calvi, rimasto senza protezioni ad affrontare lo scandalo, cercò l’intervento del Vaticano e dello IOR,[citazione necessaria] ma poco meno di due mesi dopo, il 21 maggio, venne arrestato per reati valutari, processato e condannato.

Tentativo di salvataggio In attesa del processo di appello, Calvi fu messo in libertà provvisoria, tornando a presiedere il Banco. Nel tentativo di trovare fondi per il salvataggio dei conti, strinse rapporti con Flavio Carboni, un finanziere sardo legato ad ambienti politici e malavitosi romani come la Banda della Magliana, legami che forse portarono al tentato omicidio di Roberto Rosone.[citazione necessaria] Rosone, direttore generale del Banco, fu vittima di un attentato da parte di Danilo Abbruciati, un boss della banda della Magliana, a causa delle perplessità espresse circa alcuni finanziamenti concessi dal Banco a Carboni senza la presenza delle dovute garanzie.La situazione comunque precipitò e Calvi e Carboni cercarono ancora l’intervento dello IOR, che rifiutò di fornire aiuto di fronte ai numerosi fatti criminosi che via via emergevano.

Il giallo della morte Il 9 giugno 1982 , Calvi si allontanò da Milano, giungendo a Roma in aereo, dove incontrerà Flavio Carboni, col quale organizzerà la fuga verso l’estero.L’11 giugno il banchiere si dirigerà a Venezia, per poi raggiungere Trieste, e successivamente la Jugoslavia. Dal paese slavo proseguirà poi per Klagenfurt, nel Tirolo austriaco.Il 14 giugno Calvi incontrerà Carboni al confine con la Svizzera, per poi partire il 15 giugno verso Londra, dall’aeroporto di Innsbruck.Il 16 giugno Carboni partirà da Amsterdam per raggiungere Calvi a Londra.[1]Il 18 giugno venne trovato impiccato da un impiegato postale, sotto il Ponte dei Frati Neri sul Tamigi ( 51°30′34″N 0°06′16″W / 51.50944, -0.10444) in circostanze molto sospette, con dei mattoni nelle tasche e 15.000 dollari addosso. Fu trovato anche un passaporto con le generalità modificate in “Gian Roberto Calvini”. La magistratura inglese liquidò la morte di Calvi come suicidio, come affermato da una perizia medico-legale, nonostante tutte le evidenze dimostrassero il contrario. Sei mesi dopo, l’Alta Corte annullò la sentenza per vizi formali e sostanziali ed il giudice che l’aveva emessa venne incriminato per irregolarità; il secondo processo britannico lasciò aperta sia la porta del suicidio, sia quella dell’omicidio.Nel 1988 iniziò in Italia una causa civile che stabilì che Roberto Calvi era stato ucciso e impose a un’assicurazione il risarcimento di 3 milioni di dollari alla famiglia.Un nuovo procedimento legale sulla morte di Calvi è stato aperto in Inghilterra nel settembre 2003.

Il processo in Italia [modifica]

Una prima indagine della procura di Milano archiviò il fatto come suicidio.Nel momento in cui, nel 1992, la procura di Roma venne in possesso di nuovi elementi per riaprire il caso come omicidio volontario e premeditato, la Cassazione decise il passaggio della competenza da Milano a Roma.L’indagine proseguì con l’ordinanza di custodia cautelare emessa nel 1997 dal gip Mario Alberighi a carico di Pippo Calò e Flavio Carboni, accusati di essere i mandanti dell’omicidio. Secondo l’accusa, Calvi sarebbe stato ucciso perché impossessatosi del denaro di Calò e di Licio Gelli,maestro venerabile della P2.L’anno successivo, una nuova perizia sulla morte di Calvi, ordinata dal gip Otello Lupacchini, stabilì l’infondatezza dell’ipotesi del suicidio.Il processo penale iniziò il 5 ottobre 2005 in una speciale aula approntata all’interno del carcere di Rebibbia, a Roma. Imputati furono il boss di Cosa Nostra Pippo Calò e Flavio Carboni, accusati di omicidio, Ernesto Diotallevi, esponente della Banda della Magliana, Silvano Vittor (contrabbandiere di jeans e caffè) e la compagna di Carboni, Manuela Kleinszig.L’accusa fece leva sulle circostanze della morte di Calvi per dimostrare la colpevolezza degli imputati (tra cui una telefonata effettuata dalla camera dove alloggiava il banchiere, i tempi morti nella ricostruzione, etc), sulle difficoltà di accesso per un uomo di 60 anni al luogo in cui era stata legata la corda, e su una serie di perizie sul livello del Tamigi.
Dall’altro lato, la difesa puntò sulla sostanziale assenza di prove contro gli imputati e sull’assenza di un movente forte per scagionare Carboni e Calò.
pronunciata da Roberto Calvi durante il processo per reati valutari ha lasciato molti dubbi sugli eventi. Delle recenti affermazioni della famiglia di Calvi vorrebbero legare quella frase ad alcuni esponenti del Vaticano e la scomparsa di Emanuela Orlandi (la ragazza scomparsa in Vaticano nel 1983 e tuttora al centro di un giallo internazionale) a queste vicende.Nel marzo 2007 il pm Luca Tescaroli, al termine della sua arringa conclusiva, aveva chiesto l’ergastolo per Pippo Calò, già considerato il “cassiere” della mafia, per il “faccendiere” Flavio Carboni, per Ernesto Diotallevi, ritenuto uno dei boss della Banda della Magliana, e per Silvano Vittor, accusato di aver accompagnato Calvi a Londra, di avergli fornito il passaporto falso e di essere stato uno degli esecutori materiali del delitto. Assoluzione piena era stata invece richiesta per la ex fidanzata di Carboni, Manuela Kleinszig.Ad avviso del pm, tre motivi principali sarebbero stati alla base del delitto: gli organizzatori dell’omicidio ritenevano che il banchiere avesse male amministrato il denaro di Cosa Nostra, sospettavano potesse rivelare i segreti del sistema di riciclaggio messo in piedi attraverso il Banco Ambrosiano e ritenevano, compiuto il delitto, di poter avere maggiore peso negoziale nei confronti di coloro che erano coinvolti con Calvi.Il capo d’imputazione recitava:Il 6 giugno 2007 la seconda Corte d’assise di Roma, presieduta da Mario Lucio d’Andria, ha emesso una sentenza di totale assoluzione per tutti gli imputati per il processo Calvi. Flavio Carboni, Pippo Calò, Ernesto Diotallevi e Silvano Vittor sono assolti ai sensi dell’articolo 530 c.p.p., 2° comma, ossia per insufficienza di prove. Assolta con formula piena invece Manuela Kleinszig, come chiesto dallo stesso pm.Resta aperto invece il secondo filone dell’inchiesta romana, a proposito dei mandati dell’omicidio, tra i cui indagati figura anche Licio Gelli.