IL FILO DI ARIANNA di TRIPLAG..il filo per non perdersi nella realtà


*Birmania: rivolta dei monaci
giovedì, marzo 6, 2008, 11:37 PM
Filed under: guerre dimenticate

da repubblica.it

Birmania, nel monastero della rivolta
‘Noi, monaci che sfidammo il regime’

dal nostro inviato DANIELE MASTROGIACOMO

PAKOKKU – Cinque mesi dopo, restano ancora le tracce della battaglia. Fuori, lungo i muri di cinta sbrecciati dalla pallottole; dentro, sui pavimenti in legno anneriti, nei giardini invasi dalle erbacce, nei bagni collettivi allagati, nell’infermeria saccheggiata, nelle stanze dei novizi vuote e sporche. Persino i corridoi, luogo di meditazione e di lettura, sono occupati dai resti di armadi, sedie e tavoli ammassati alla rinfusa. Per terra, allineati con cura in una stanza chiusa a chiave, si sono salvati solo loro: i libri sacri dello Sangha, la chiesa buddista, e le antiche pergamena di palma scritte a mano.

Il grande bonzo, il capo spirituale del monastero, è assorto nella sua lettura. E’ solo, al centro del salone al primo piano dove si tengono le lezioni, disteso su un letto in tek coperto da un telo rosso scuro. Restiamo in attesa, avvolti da un cupo senso di desolazione. Il maestro piega il libro. Si mette seduto, incrocia le gambe, si gira verso di noi, porta le mani giunte sulla fronte. “Siate i benvenuti”, ci dice dopo minuti che sembrano eterni.

Ma-Gway Taungdwingyi, 84 anni, il viso liscio, lo sguardo sereno, non aggiunge altro. Osserva il silenzio che il regime gli ha imposto. Non può dire, come chiunque racconta in Birmania, che tutto è iniziato qui dentro, in un monastero alla periferia di Pakokku: un villaggio lontano dalle rotte turistiche, famoso per il suo tabacco forte e profumato con cui si confezionano i sigari cheerok, sulle sponde del fiume Ayeyarwady, cuore della Birmania centrale, oggi chiamata Myanmar.

E’ il 16 agosto scorso. Quattro funzionari del governo si presentano nel collegio di Pakhanngeh Kyaung, il più grande di tutto il paese, 100 anni di storia, un’immensa struttura che si regge su 322 pilastri in legno intarsiati. Chiedono di Ma-Gway: non sono venuti, come fanno molti, per chiedere un consiglio e lasciare un’offerta. Hanno altro in testa, il maestro è finito nel mirino della giunta militare. Parla troppo e parla male: del governo dei militari, di quanto sia profondo il distacco che li divide dal paese reale. Lo ammoniscono senza molte remore: “Questo deve essere un luogo di studio e di preghiera, non di politica”.
Lo minacciano in modo brusco: “Smettila di sobillare i tuoi studenti o ti facciamo sparire”. Il grande monaco è paziente. Usa tutto il suo carisma e la sua influenza. Ricorda che l’aumento di cinque volte il prezzo della benzina e di tanti altri beni di prima necessità sta affamando il popolo.

I bonzi lo sanno bene: vivono a stretto contatto con la gente. La colletta che compiono ogni mattina all’alba, secondo un rituale di secoli, scalzi, avvolti nelle loro tuniche colorate, passando di casa in casa, si è interrotta. A Pakokku, davanti alla ciotola mostrata per raccogliere le offerte, le famiglie portano la mano alla bocca: non c’è cibo, non ci sono soldi. Il maestro invita i funzionari a lasciare il monastero. Ma i quattro emissari insistono; l’ordine è arrestarlo, portarlo via. Volano parole grosse: la discussione è animata, violenta, sostiene chi era presente.

Sfidare un monaco, un maestro spirituale, in Birmania è una grave offesa, una vera provocazione. Decine di novizi, ragazzi che vivono nel monastero il tempo per studiare i testi sacri del buddismo e imparare l’inglese, hanno seguito il diverbio. Sono indignati. Intervengono, come sono sempre intervenuti. Anche nelle proteste del 1988 sono stati i bonzi più giovani, assieme agli studenti, ad accendere la miccia della rivolta. Scoppia una rissa generale. I quattro funzionari lasciano a fatica il monastero. Ma all’esterno trovano le loro auto in fiamme. Ma-Gway Taungdwingyi non scenderà nei dettagli e noi eviteremo domande che non vanno fatte.

Sarà George, la nostra guida di Nyaung U che ci ha accompagnato sul posto, a dirci cosa è accaduto. Al ritorno, mentre attraversiamo l’Ayeyarwady a bordo di una lancia, coperti dal rumore assordante del motore ad elica allungata, ci spiega: “Adesso posso parlare. Prima non mi fidavo di nessuno. Pakokku è piena di spie. Le autorità le hanno infiltrate anche tra i monaci.
La rivolta dell’agosto e settembre scorsi è nata qui dentro. Dopo l’incendio delle auto dei quattro funzionari del governo, sono arrivati la polizia e l’esercito. Ma è accorsa anche la gente del villaggio.

La voce si è sparsa in tutta la regione. Migliaia di persone sono giunte dai paesi vicini: ne arrivavano ad ondate, con ogni mezzo, dall’interno e poi con le barche, dall’altra sponda del fiume. Ci sono stati gli scontri, molti feriti, tantissimi morti. La gente è rimasta, ha resistito. La protesta si è allargata a Bagan, a Mandalay, a Yangon. Ventotto giorni di cortei e manifestazioni.

Fino a quando sono intervenuti i reparti speciali, con i fucili, le mitragliatrici, lo stato d’assedio, il coprifuoco”. Il monastero resterà isolato e circondato dal filo spinato fino a Natale.

Oggi il collegio di Pakhanngeh Kyaung è stato riaperto ma sembra abbandonato: pochi lo frequentano e non ci sono soldi per restaurare le ferite inferte durante la sommossa. Su 836 monaci ne sono rimasti solo 174. I pochi che si affacciano, timidi e preoccupati, evitano ogni contatto. C’è ancora molta diffidenza: i bonzi sono visti dal regime come un pericolo. In tutta la Birmania, ce n’erano 400 mila. In dieci anni la giunta, con la sua “campagna di purificazione”, li ha ridotti del 20 per cento. Il monastero si è svuotato.

Molti sono fuggiti. Forse tornati a casa, forse scomparsi, morti, inghiottiti nelle carceri. Nessuno sa nulla di loro. Solo il principio buddista per cui la vita è un continuo ripetersi può spiegare le contraddizioni di questo paese allegro e insieme triste, ribelle e rassegnato. Il suo fascino è tutto lì. La Birmania sembra galleggiare su un tempo indefinito: ancorata al suo passato glorioso, costretta a vivere un presente drammatico, proiettata su un futuro che non le appartiene ancora.

La giunta dei militari è rimasta sorpresa dalla rivolta di Pakokku. Non si aspettava che proprio in questo monastero, immerso nel cuore dell’etnia bamar, scattasse l’ennesima sfida. I pericoli, storicamente, arrivano dalle zone che confinano con Cina, Thailandia, Laos e India, dove sono arroccate le minoranze più ostili al sogno di una grande Birmania. Occupato dal suo business, il regime non si era reso conto che l’intero paese bolliva come un vulcano pronto ad esplodere. Eppure basta camminare nel centro di Mandalay, 80 chilometri più a nord, per capire che la “primavera” birmana non è mai finita.

Il sangue versato a settembre sui grandi viali che costeggiano la maestosa fortezza costruita del re Mindom Min, penultimo sovrano della dinastia Konbaung, ha scosso dal torpore questa città adagiata sul privilegio di essere la culla religiosa e l’ultima capitale del regno prima della dominazione britannica. Avvolta dal buio dopo il tramonto, punteggiata dai fari dei motorini e delle biciclette che invadono le strade come sciami, abbagliata da decine di pagode dalle cupole bianche e i pennacchi dorati, Mandalay fa i conti con l’ennesimo incendio. La corrente arriva a singhiozzo.

Il governo la concentra sulle strutture militari. Quando torna, l’energia è una scarica che brucia gli impianti ridotti ad un ammasso di fili. Il cortocircuito è inevitabile. La benzina comprata al mercato nero e tenuta in casa fa il resto. L’anno scorso, in questo modo, nella sola Mandalay, un milione di abitanti, sono andate a fuoco 40 mila abitazioni.

Tsa-Tsa, il ragazzo del nostro risciò, si dirige verso la zona dove adesso si alzano fiamme rosse e gialle. Ha bisogno di lavorare e si fa coraggio. Sostiene di non mangiare da tre giorni. C’è da credergli. Nel 2007, secondo una fonte diplomatica occidentale, ci sono stati solamente duecentomila turisti, rispetto agli 800 mila dell’anno precedente. Si fanno sentire gli inviti (timidi) al boicottaggio rivolti alle Nazioni unite e all’Unione europea contro la giunta militare da 46 anni al potere. Prevalgono gli scrupoli morali. L’appello a disertare la Birmania di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991, leader dell’Nld (National leage for democracy), vincitrice assoluta delle passate elezioni, da 6 anni di nuovo agli arresti domiciliari, sembra avere effetto. Per due settimane abbiamo girato il paese in lungo e in largo incontrando pochissimi turisti.

Chiediamo alla nostra guida cosa sta accadendo; vediamo, in lontananza, le luci della polizia. “Problem, problem”, si affanna allarmato. “Police, army, protest”. Ma poi, subito dopo, giù a ridere, come fanno sempre i birmani per stemperare anche la più piccola tensione.
“Questo viale”, racconta, “ad agosto era pieno di gente. Migliaia e migliaia di persone. Prima sono scesi in piazza i monaci, poi la gente si è fatta coraggio e li ha seguiti”. Chiediamo quanti feriti e quanti morti ci sono stati. Lo domandiamo spesso in giro. Le risposte sono sempre diverse e vaghe. Dopo tante pressioni, il governo dello Spdc (State peace and development council), ex Slorc, il partito unico, artefice di questa “via birmana al socialismo”, ha ammesso dieci vittime, 2700 arresti, tra cui 573 monaci, 1600 dei quali già stati rilasciati.

Il “Tate naing” della “Assistance association of political prisoniers” parla invece di 4000 morti e 700 arresti. La verità, inaccessibile, resta isolata al centro della Birmania, a Nyapyidaw, dove il regime, con una scelta paranoica e ossessiva appoggiata dall’indovino di corte, ha deciso di trasferire la nuova capitale. Una città-caserma artificiale, nata dal nulla, senza negozi, ristoranti, case, sale da tè, ospedali e scuole. Ci vivono il vertice della giunta militare, i generali, gli ufficiali, la truppa, i dirigenti del Spdc. Una comunità priva di vita, rumori, colori, emozioni. I birmani ci ridono sopra e la spiegano con una barzelletta: “Hanno paura di tutto, persino del loro popolo”.

Tsa-Tsa ricorda molto bene i cadaveri abbandonati sull’asfalto o lungo i marciapiedi quando l’esercito ebbe l’ordine di sparare. E’ convinto: “Li hanno cremati o buttati in una fossa comune”. Racconta che i cortei sono durati quattro settimane. “C’erano due appuntamenti quotidiani: la mattina alle 9 e poi alle 4 del pomeriggio. Non si mangiava e si dormiva poco. Bevevamo coca-cola, lo zucchero ci dava forza e ci teneva svegli. Le autorità non hanno reagito subito. Sono rimaste a guardare per una settimana. Sparare sui religiosi li metteva in crisi”.

Oltre ad essere buddista, la giunta militare è nota per essere superstiziosa: nelle scelte più importanti interpella esperti astrali e interpreti del fuoco in grado di scacciare gli spiriti maligni. Ma qualcosa si è rotto al vertice. Si parla di uno scontro tra il capo, il tenente generale Than Shwe, 74 anni e il suo vice, il generale Maung Aye, 69. Il primo era favorevole ad un intervento, il secondo invitava alla prudenza. La realtà della piazza ha fatto prevalere la linea dura.

“Quando si sono uniti anche gli studenti”, aggiunge il ragazzo del risciò, “i professori, i commercianti, gli ingeneri, i farmacisti, quando tutti i negozi sono rimasti chiusi, quando i genitori si sono rifiutati di mandare i propri figli a scuola, allora è scattata la repressione”. Indica le feritoie della muraglia che scorre sul lato: “Sparavano da lì. La folla marciava e loro sparavano”. Ciò che è accaduto, lo ha saputo e visto tutto il mondo. Grazie alle foto scattate con i cellulari e spedite all’estero via mail dai più coraggiosi. Sono gli stessi che vediamo accorrere verso l’incendio. Le ragazze in minigonna ma con il viso protetto dalla “tannaka”, la crema di legno di sandalo, per mantenere la pelle bianca. I ragazzi con i jeans larghi e calati, i capelli colorati, i tatuaggi, gli orecchini, mischiati a quelli che indossano i “longyi”, il pareo tradizionale, e ciabattine. Passato e futuro.
Tutti insieme. Alzano le due dita in segno di vittoria, strombazzano clacson e trillano i campanelli delle loro biciclette.

La scuola è finita. Due potenti casse sparano musica heavy metal da un camion. Stasera si balla. Anche il nuovo incendio sarà spento. La Birmania, quella vera, non vuole più attendere.



Le Maldive nascoste
sabato, dicembre 22, 2007, 10:13 PM
Filed under: guerre dimenticate

da repubblica.it

L’altra faccia delle Maldive

C’è la storia di Evan, mai tornato a casa. E quella di Ic, che lotta per la libertà del suo popolo. Tutto quello che i turisti in cerca del sogno non vedranno mai

 

di ERWIN KOCH

La madre apre una borsa di plastica, estrae una foto, la mette sulla macchina da cucire, la guarda, resta in silenzio. Trema. “Dalle orecchie”, dice, “gli usciva la sabbia bianca”. La stessa sabbia che, unita al verde trasparente di questo mare, incanta i turisti che arrivano qui a Male, capitale delle Maldive, vengono portati sulle cento isole precluse agli abitanti e nulla vedono o sanno che possa disturbare il loro sogno. Certo non la storia di un giovane uomo, chiamato Evan e di sua madre Mariyam, di IC, di Hussein Salah….

Evan Naseem, il secondo figlio di Mariyam Manike, è morto a 19 anni, il 19 settembre 2003, di mercoledì. Come un terzo dei giovani maldiviani era tossicodipendente: era stato trovato con della droga e portato nella prigione-isola di Maafushi. In carcere c’era stata una rissa, lui si era tenuto in disparte, ma le guardie andarono a prenderlo lo stesso: “Non mi toccate”, aveva urlato, afferrando un pezzo di legno. Le guardie arrivarono, lo legarono ad un palo e lo picchiarono in dodici. Con pugni, calci e bastoni. Poi lo lasciarono per terra, senza vita, sulla sabbia bianca.

Mariyam Manike ricorda che una guardia bussò alla sua porta: doveva chiamare il suo capo, le disse, il capo delle guardie. Suo figlio è morto, annunciò quello. Qualcuno la accompagnò a vedere il cadavere, ma le mostrarono solo il volto. Lei però strappò il lenzuolo: vide ematomi, ferite, sangue. Uno disse: il cadavere deve essere immediatamente seppellito, come comanda Dio. Non prima, urlò Mariyam, che lo veda il mondo. Al funerale c’erano centinaia di persone. Più tardi la gente diede fuoco ad alcune stazioni di polizia di Male, all’ufficio del tribunale, all’alto Parlamento, mentre nel carcere di Maafushi cominciò una rivolta dei prigionieri. Le guardie uccisero tre detenuti, ne ferirono diciassette.


Maumoon Abdul Gayoom dichiarò il coprifuoco e lo stato d’emergenza, sospendendo i poteri costituzionali. Poteva, anzi può farlo. Ha un mandato che lo fa succedere a se stesso sin dal 1978: è presidente, capo della polizia, dell’esercito, dei vigili del fuoco, della giustizia e, fino a qualche tempo fa, anche delle finanze e della Banca centrale. Possiede una pista d’atterraggio, un’isola privata e partecipazioni nei complessi turistici, unica ricchezza del paese. I suoi ministri sono tutti amici o parenti. Dopo la morte di Evan, per sedare la protesta popolare, Gaymoon insediò una commissione d’inchiesta e gli autori dell’omicidio furono arrestati. Di recente la loro condanna a morte è stata trasformata in ergastolo.
Mariyam Manike continua il suo racconto: “Undici mesi dopo la morte di Evan ci riunimmo nella grande piazza davanti al quartiere generale della polizia perché cinque democratici riformisti erano stati arrestati. Venne il buio e nella piazza eravamo ormai 10 mila. La polizia entrò con i carri armati e ci inseguì per la città. Io urlai: avete ucciso mio figlio, Evan Naseem”.

Il presidente Gayoom parlò di sollevazione contro la patria, fece arrestare 600 persone, oscurò internet.
Da Maryam la polizia arrivò il giorno successivo: uno tirò fuori un manganello e cominciò a picchiarla. Si mise a ridere quando il sangue cominciò a ricoprirle le gambe e piedi. Era il 13 agosto 2004. Fu portata prima sull’isola di Girifushi, luogo d’addestramento della polizia, poi a Dhoonidhoo, l’isola degli interrogatori che si trova a nord, non lontano dall’aeroporto in cui arrivano turisti ignari. Lì qualche volta, con le catene ai piedi, poteva uscire per fare il bucato e vedeva gli assassini del figlio, dodici uomini che giocavano a carte, parlando forte e allegri. Un giorno incontrò un prigioniero con i capelli neri e lunghi; tremava dalla paura e dal dolore, le disse di chiamarsi IC. L’11 ottobre 2004, la polizia la rimandò a casa. Dopo lo tsunami il presidente Gayoom concesse l’indulto. Oggi Mariyam dice: “Non sono più lo stessa”. Ma, dopo la morte di Evan, secondo lei “anche lo stato non è più lo stesso”. Vero: i maldiviani si sono ribellati per la prima volta, l’unione Europea ha iniziato a chiedere riforme. Due anni fa, Gaymoon ha dovuto autorizzare altri partiti politici. Come quello dei suoi oppositori, il partito democratico che ha la sua roccaforte nell’atollo di Addu.

 Nella sala da pranzo dell’unico hotel di Gan, atollo di Addu, sta seduto l’uomo che Mariyam ricorda. “Non voglio fare la rivoluzione”, dichiara Abdullah Rasheed, che tutti chiamano IC. “Vorrei che ci fossero elezioni libere e pacifiche, un Parlamento che rappresenti il popolo”. Mesi fa, racconta, Gaymoon era arrivato qui per inaugurare una pista di atterraggio. La polizia aveva ordinato alla popolazione di dipingere le case, rastrellare le aree verdi e mettersi ai lati della strada per applaudire. Chi rimane a casa verrà arrestato, avevano minacciato. “Due giorni prima”, ricorda Ic “avevamo scritto slogan sui muri della città: dove sono le riforme? Dov’è la nuova costituzione? Anni, il segretario del Partito democratico, era venuto per aiutarci. Hussein Salah è stato il suo autista. Ha pagato con la vita”.

La strada più lunga della Repubblica, 18 chilometri, unisce quattro isole: Gan appunto e poi Feydu, Maradhu, Hithadhu. Lungo i lati palme e baracche con il tetto di lamiera ondulata, davanti alle quali le donne pestano il corallo e gli uomini riempiono di finissima sabbia bianca dei sacchetti che rivendono a 20 centesimi di euro l’uno come materiale per la costruzione. Anche Hussein Salah, 30 anni, riempiva sacchetti di sabbia. Il 7 aprile 2007, ha portato sulla sua moto Anni, il segretario dei democratici: lo aveva conosciuto nel carcere di Maafushi. Qualche ora dopo, Anni ricevette un sms: “uno di voi due deve morire”.

La sera del 9 aprile, la polizia andò a prelevare Hussein. Il 12 aprile, lui chiamò da Male. “Aveva detto che sarebbe tornato presto”, si dispera oggi il fratello Ibrahim Zareer in questa piccola casa di cemento e lamiera a Naazukee Hingun, Hithadhu, nell’atollo di Addu. Dietro di lui, quasi cieco, c’è il padre, accanto la madre, i fratelli, le sorelle. La sera del giorno dopo un poliziotto telefonò riferendo che Hussein era stato liberato. Ma la mattina del 15 aprile i pescatori trovarono il suo cadavere sulla costa a sud di Male. All’ospedale, un medico esaminò il corpo: il volto e il corpo erano gonfi e coperti di sangue, il setto nasale fratturato, gli mancavano alcuni denti. Causa della morte: not known (sconosciuta). Il fratello partì per Male. “Il cadavere, gonfio e maleodorante, era nella morgue di Galholu, senza refrigerazione. “Tuo fratello deve essere seppellito subito, così vuole Dio”, mi dissero. Ma io risposi che volevo l’autopsia”. Davanti alla morgue si erano raccolte prima decine di persone, poi centinaia. La polizia arrivò a disperderle. La televisione di stato comunicò che Hussein Salah era un tossicodipendente e un ladro e che era stato rilasciato dalla polizia due giorni prima. “Volevo un’autopsia”, piange oggi il fratello cullando la figlia.

L’autopsia è stata effettuata, il 21 aprile 2007, a Colombo, nello Sri Lanka. Alle 4 del pomeriggio il medico ha chiamato il fratello di Hussein, e gli ha detto di avere mandato il rapporto all’ambasciatore delle Maldive a Colombo. “Mezz’ora più tardi”, balbetta il fratello, “mio zio ci ha detto che la televisione di Stato aveva appena sostenuto che Hussein era annegato, che il corpo non presentava ferite o fratture e che era da escludere una morte imputabile a violenza fisica”.
Improvvisamente, il padre si raddrizza sulla sedia: “Mi chiamo Hassan Zareer, solo un uomo anziano e conosco la vita degli uomini. Il medico di Colombo è anziano come me. Due governi, quello maldiviano e quello dello Sri Lanka, lo hanno convinto, volevano un risultato a loro gradito. Si diventa molto deboli quando si è anziani”.

(ha collaborato Assunta Sarlo)



Irlanda del Nord
sabato, dicembre 8, 2007, 1:36 PM
Filed under: guerre dimenticate

La lotta per l’indipendenza dell’Irlanda del Nord, cattolica e repubblicana, dal governo monarchico e protestante di Londra ha radici secolari.
L’attenzione su questo conflitto si accende a partire dal 1920 quando l’Esercito Repubblicano Irlandese (IRA) decide di iniziare la lotta nei territori dell’Ulster che, a differenza dell’Eire, sono rimasti nelle mani di sua maestà. L’IRA (braccio armato del Scinn Fein) è uno degli eserciti clandestini più organizzati e militarmente efficaci del mondo, così la guerriglia diventa ben presto una realtà quotidiana in Irlanda del Nord. I cattolici indipendentisti e i protestanti unionisti (appoggiati dai soldati inglesi) si fronteggiano a colpi di granate, attentati e lanci di pietre. La tensione sale alle stelle quando negli anni 70 il governo inglese decide di incrementare la propria presenza militare in Irlanda e di adottare una linea dura. Nell’Ulster è praticamente guerra. Non mancano massacri di popolazione civile, come il cosiddetto “Bloody Sunday”, quando durante una manifestazione a Derry, il 30 gennaio 1972, i paracadutisti inglesi aprono il fuoco su migliaia di persone, uccidendone 14.

Tra attentati dell’IRA e repressione militare, dal 1976 si contano oltre 3mila morti. Solo nel 1992 vengono avviate, nonostante il livello dello scontro non accenni a calare, le prime trattative segrete tra Sinn Fein e la controparte. Il 31/8/1994, con la decisione dell’I.R.A. di attuare una “completa cessazione delle operazioni militari a tempo indeterminato” , si avvia ufficialmente il processo di pace grazie alla cooperazione di Gerry Adams, leader del Sinn Fein, Martin McGuinness, uno dei capi carismatici dell’I.R.A., John Hume, leader del Partito Socialdemocratico e Laburista dell’Ulster, John Major, Primo Ministro britannico succeduto alla Thatcher e conservatore come lei ma che ha capito come non sia più possibile continuare in modo ostinato una guerra civile che dal ’69 ha fatto circa 3.300 morti e 38.000 feriti e infine Albert Reynolds, Primo Ministro irlandese e leader del partito Fianna Fail. L’evento può essere di portata storica perché mai fino a quel momento il governo inglese ha riconosciuto la legittimità del Sinn Fein a sedere al tavolo delle trattative come rappresentante degli interessi cattolici, ma viene posta una condizione che a molti irlandesi sembra inaccettabile: L’IRA deve consegnare le armi. Si entra così in una fase di stallo. Siamo nel 1996.

La situazione si sblocca un anno dopo con la dichiarazione di pace e il cessate il fuoco. Attualmente le cose si stanno complicando. Nonostante Blair abbia indicato il “problema irlandese” come una priorità nel suo programma, gli scontri a Belfast (e non solo) si sono riaccesi. Alcune frange dell’IRA non hanno aderito al cessate il fuoco e da parte lealista le provocazioni sono continue. Gli estremisti Orangisti (protestanti unionisti) scatenano spesso scontri e violenze. Esemplare il caso recente dell’aggressione (con lanci di bottiglie e sassi) alle bambine cattoliche mentre vanno a scuola.



Chiapas, sulle orme di Zapata
sabato, dicembre 8, 2007, 1:31 PM
Filed under: guerre dimenticate
CHIAPAS: Scheda conflitto
Schede Conflitti: 25/06/02 – 12:36:09 da Admin
 
 

La regione più meridionale del Messico è teatro dal 1994 di una rivolta degli indigeni maya, organizzati nell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), guidato dal Subcomandante Marcos.

Motivi dell’insurrezione, le drammatiche condizioni di vita della comunità Maya, messa a rischio di estinzione materiale e culturale dalle politiche economico-sociali del regime priista.
Dopo un breve periodo di vera e propria guerra civile, sono subito partiti i negoziati di pace. Ma il governo non ha mai voluto riconoscere le rivendicazioni degli indigeni, che da allora hanno iniziato a subire una “guerra a bassa intensità” perpetrata da bande paramilitari priiste appoggiate dall’esercito federale (finanziato e addestarto dagli Usa).

Oltre a continui episodi di violenza sulla poplazione civile (migliaia i rifugiati in seguito alla distruzione dei villaggi) e di persecuzione poliziesca degli attivisti politici (centinaia i desparecidos), si sono registrati dei veri e propri massacri come quello di Acteal nel 1997, costato la vita a decine di indigeni.  



Molucche
sabato, dicembre 8, 2007, 1:30 PM
Filed under: guerre dimenticate
MOLUCCHE: Scheda conflitto
Schede Conflitti: 25/06/02 – 12:20:55 da Admin
 
 

All’inizio del 1999 è scoppiata, per futili motivi (un autobus guidato da un autista cristiano investì un ragazzo musulmano), una vera e propria guerra di religione tra musulmani e crisitiani. L’esercito indonesiano è intervenuto per riprotare la calma, ma poi ha finito per prendere le parti della fazione musulmana.

Le violenze, estese a tutte le isole dell’arcipelago delle Molucche, hanno causato fin’ora 5mila morti e mezzo milione di rifugiati di entrambe le fazioni in lotta.



Abkhazia (Georgia)
sabato, dicembre 8, 2007, 1:28 PM
Filed under: guerre dimenticate
ABKHAZIA (Georgia): Scheda conflitto
Schede Conflitti: 24/06/02 – 12:26:45 da P.Oddone
 
 

L’Abkhazia , regione annessa alla Georigia nel 1930, è fin da allora stata attraversata da un forte sentimento separatista, fomentato anche dalla rivalità etnica tra abkhazi e russi da una parte e georgiani dall’altra.
Nel 1989, dopo la caduta del Muro di Berlino, il separatismo abkhazo si arma per ottenere l’indipendenza dalla Georgia (che successivamente, nel ’91, diverrà a sua volta indipendente dall’URSS).

Fino a quel momento Tiblisi non ha reagito alla minaccia separatista. Lo ha fatto solo dopo che le stesse autorità dell’Abkhazia votarono nel luglio del ’92 a favore dell’indipendenza. Il neonato esercito georgiano venne mandato a presidiare Sukhumi, la capitale dell’Abkhazia, e iniziò la guerra.
I partigliani abkhazi dei “Fratelli dei Boschi” e delle “Legioni Bianche” massacrarono centinaia di georgiani residenti nella regione, e centinaia di migliaia furono costretti ad abbandonare i loro villaggi per fuggire in Georgia.

La Russia post-comunista non è rimasta neutrale in questo conflitto, parteggiando per i separatisti abkhazi, al fine di impedire il progetto di Tiblisi di costruire – facendolo passare per l’Abkhazia – un metanodotto per portare sul Mar Nero il gas naturale del Mar Caspio. Nel settembre del ’93 i guerriglieri abkhazi appoggiati da mercenari dell’esercito russo hanno conquistato Sukhumi, cacciando le forze georgiane dalla regione ed espellendo poi tutti i civili georgiani rimasti.
Nel ’94 una forza di pace russa si stanziò al confine tra Abkhazia e Georgia per evitare scontri, sancendo così il dato di fatto. Alla fine del ’94 l’Abkhazia si dotò di una Costituzione indipendente e di un Presidente della repubblica, mai riconosciuto da Tiblisi.

Nel ’98 sono riesplosi combattimenti tra partigiani abkhazi ed esercito goergiano. A farne le spese, ancora una volta, i civili georgiani, uccisi a centinaia.

La situazione è calma da allora, ma sempre tesissima. Tiblisi è certa che la Russia, che appoggia l’Abkhazia, non mancherà di provocare nuovi scontri per riaccendere il conflitto con la Georgia, che Mosca, tra l’altro, ultimamente accusa di dare asilo ai guerriglieri separtisti ceceni.



India, Sri-Lanka, Nepal, Birmania
sabato, dicembre 8, 2007, 1:12 PM
Filed under: guerre dimenticate

INDIA:

L’India nordorientale, abitata da diverse etnie che non si sono mai sentite “indiane”, geograficamente separata dal sub-continente indiano e socio-economicamente emarginata dal governo di Nuova Dehli, ha conosciuto guerriglie separatiste fin dalla nascita dello Stato indiano dopo la seconda guerra mondiale.

La pià “vecchia” è quella combattuta dal Consiglio Socialista Nazionale del Nagaland (NSCN), una formazione guerrigliera che combatte per l’indipendenza dello stato del Nagaland e per l’allargemento delle sue frontiere secondo principi etnici anche negli stati indiani confinanti di Manipur, Assam e Arunachal Pradesh.
Dagli anni ’70 l’esercito indiano ha dato il via ad una vera e propria guerra contro la guerriglia Naga, e le vittime sono state moltissime.

Sempre negli anni ’70 sono sorti anche i movimenti guerriglieri separatisti nello stato di Manipur, abitato in maggioranza dall’etnia Meiteis. Anche qui la maggiore formazione armata è di estrazione marxista: l’Esercito di Librazione Popolare (PLA).

Nel 1979 nasce il Fronte Unito di Liberazione dell’Assam (ULFA) per portare avanti la lotta armata contro lo Stato indiano al fine di fare dell’Assam uno Stato indipendente e socialista. Forti di un massiccio appoggio popolare, il movimento indipendentista armato negli anni si è radicato profondamente nella regione, istaurando in molti distretti una sorta di governo parallelo che ha promosso riforme sociali e opere pubbliche inidispensabili, come strade e argini contro le periodiche e disastrose inondazioni. La repressione militare indiana contro il separatismo nell’Assam è andata gradualmente intensificandosi, fino a trasformarsi, dopo le operazioni dei primi anni ’90, ina guerra vera e propria. Ultimamente Nuova Dehli ha inviato nella regione reparti speciali d’élite, che sempre più spesso si scontrano duramente con i guerrigleri.

In venti anni di conflitto armato si sono contati almeno 10mila vittime.
Nell’India sudoccidentale, in particolare nello stato sudoccidentale di Andra Pradesh, dove la povertà dilaga in maniera indegna e il governo non fa assolutamente nulla per fronteggiarla, combattono da vent’anni i “Naxaliti” del Gruppo Guerra Popolare (PWG), formazione guerrigliera maoista che lotta per l’instaurazione di uno stato indipendente socialista nelle foreste degli stati di Andhra Pradesh, Maharashtra, Madhya Pradesh, Orissa e Bihar.

SRI-LANKA:

La Repubblica democratica socialista dello Sri Lanka (ex-Ceylon) è devastata da un conflitto inter-etnico, tra maggioranza cingalese (buddista) e tamil(indù) da almeno vent’anni. Ma l’origine della guerra civile è antica quasi quanto la storia dell’isola: indiani e cingalesi si sono contesi la “perla dell’oceano indiano” per secoli fino all’epoca delle colonie, quando il Portogallo ne fece porto strategico e magazzino per il commercio di spezie (1505). Poi fu la volta degli olandesi e a seguire degli inglesi, che piantarono la Union Jack nel 1815, dominando Serendipity, come la chiamavano i viaggiatori arabi, per più di un secolo.

E proprio sotto il drappo britannico arrivarono frotte di tamil, provenienti dal sud dell’India (Stato Tamil Nadu), come lavoratori stagionali nelle piantagioni di caffè, appena esportate e subito rosicchiate da voraci insettti locali.
Quindi i tamil si trasformarono, per volere della corona britannica, in coltivatori di tè e rimasero in pianta stabile nel nord est del paese. Una minoranza scomoda, prediletta dal divide et impera di Londra, che faceva orrore ai cingalesi  memori delle longa manus dell’India nel corso della secolare storia dell’isola.

Oggi i tamil rappresentano il 17 per cento della popolazione; il 75 per
cento è cingalese; il 7 per cento mora (musulmana) e il restante diviso tra burghers olandesi e veddah, i primi abitanti dell’isola, già presenti nel III secoolo a.C.
Quando l’isola di Ceylon diventa indipendente ( 1948 ) la polveriera è pronta ad esplodere: ai tamil  vengono subito tolti i diritti civili.

Il governo di Solomon Bandaranaike prosegue sulla scia nazionalista e nel 1956 il cingalese diviene per decreto unica lingua ufficiale, come il buddismo unica religione. Alle prime aperture per la minoranza tamil, Bandaranaike è ucciso da un monaco buddista (1959); Srimavo, la vedova ne prende il posto, diventando la prima donna primo ministro del mondo.
Alterne vicende politiche, tra cui la vittoria dell’United National Party (favorevole a una certa apertura ai tamil) traghettano il paese fino agli anni settanta quando le tensioni etniche incendiano definitivamente l’isola. Esplode anche la contestazione marxista con la creazione del gruppo terrorita del Jvp (Fronte di liberazione popolare) di Rohana Wijewera, detto “il Che Guevara d’oriente”.

Nel 1972 Ceylon si autoproclama Sri Lanka nel solco della tradizione nazionalista e promuove leggi per la diffusione dell’unica religione di stato : il buddismo. Nascono i primi gruppi clandestini (Nuove tigri Tamil) per la liberazione dell’Eelam (patria in tamil); nel 1976 prende piede il movimento armato (Ltte, Liberation Tigers of Tamil EElam) sotto la guida di Vellupilai Prabahkaran.

Anche sul versante politico i tamil fanno sentire la loro voce: nel 1977 il partito separatista tamil vince tutti i seggi nell’area di Jaffna, la penisola a nord ovest dove sono concentrati i separatisti. Gli anni ottanta diventano teatro di una dolorosa guerra aperta, che ha la sue scintille  nell’uccisione di tredici soldati cingalesi e nel pogrom di 600 tamil. Il governo di Colombo attua una durissima repressione che ha il volto nero della pulizia etnica: 65mila  tamil abbandonano l’isola per trovare riparo in India, dove sono accolti in 113 campi profughi.
Si acuisce anche il conflitto con la minoranza musulmana che patirà l’esodo di 100mila persone.

Le strategie dei separatisti tamil sono altrettanto efferate: una violenta  guerriglia stronca ogni tentativo dei governativi di controllare il nord est dello Sri Lanka; numerosi attentati, anche  suicidi, seminano il panico anche nella capitale Colombo.
Le trattative di pace messe in piede nel 1985 non portano ad alcun risultato, si continua a combattere. Dopo la creazione di alcune aree a controllo tamil, entra in scena anche l’India, fortemente contrastata da entrambe le fazioni, con l’invio di una
forza di peacekeeping che rimarrà sul terreno fino al 1990. Forse, per questo motivo il premier Rajiv Gandhi è stato assassinato nel 1991, con la complicità del Ltte.
Paramilitari nazionalisti cingalesi e i comunisti del Jvp combattono e compiono attentati contro l’accordo indo-lankese.

Gli attentati tamil si susseguono, sponsorizzati dai sostenitori fuoriusciti ai quattro angoli del mondo: forti dei contributi economici degli esuli all’estero, che vengono utlizzati per armi e approvvigionamenti, i tamil si scatenano contro aeroporti, testate giornalistiche, centri religiosi e politici. Il governo continua la repressione, durissima, ma inefficace nel piegare i ribelli, che invece tengono posizione, nonostante vengano schedati nella lista nera delle organizzazioni terroristiche da Gran Bretagna e Stati Uniti.

Nel 1995 falliscono i nuovi colloqui di pace, una bomba esplode e ferisce gravemente il presidente Chandrika Kamaratunga, figlia di Bandaranaike.
Dal 2000 la Norvegia si prende carico di far da mediatrice alla guerra infinita tra cingalesi e tamil: nel 2002 Oslo ottiene il risultato di uno storico  cessate il fuoco, che, per quanto poco rispettato, regge, almeno sulla carta.

La diplomazia internazionale parla già di ricostruzione: World Bank, Fondo Monetario Internazione, Giappone, Stati Uniti e Ue staccano i assegni, ma gli incidenti si moltiplicano. Navi tamil e della marina militare lankese calano a picco, il disarmo è lontano, sul piano politico solo la ventilata autonomia della regione del nord est tiene in vita la speranza di pace.

La recente (aprile 2003) esclusione della dirigenza del Ltte alla riunione dei donatori di Washington ha fatto saltare le trattative giunte alla settima tornata, programmata in Thailandia.
Il protrarsi degli scontri indebolisce un’economia già in contrazione dal 2001, fiaccando una delle grandi risorse che è il turismo.
L’assistenza di Stati Uniti e Giappone, grazie alla posizione strategica dell’isola, fa sì che il paese non precipiti nella miseria, ma il dramma della guerra ha spezzato intere generazioni. A partire dai bambini, traumatizzati dal conflitto, come parte passiva degli orrori, e attiva quando arruolati da milizie senza scrupolo.
La guerra ventennale dello Sri Lanka ha provocato 64mila morti e almeno un milione di sfollati.

NEPAL:

A cavallo tra i due Paesi più popolosi del pianeta, la Cina e l’India, il Nepal è insanguinato dalla ‘guerra del popolo’, lanciata nel 1996 dal Partito Comunista Nepalese (Maoista) (NCP-M) che combatte con l’intento di sradicare il feudalesimo e la monarchia costituzionale.

Stime recenti ritengono che in questi anni almeno 1800 persone abbiano perso la vita e centinaia sono scomparse dopo essere state arrestate dalla polizia.
. Scopo dei maoisti, che operano in due terzi dei circa settanta distretti che compongono il Nepal, è quello di dare al Paese un governo comunista che possa garantire i diritti dei ceti meno abbienti che rappresentano la stragrande maggioranza della popolazione.

In Nepal, sono molte le persone che con le loro famiglie sono obbligate a lavorare per appena un dollaro al giorno. Questa misera paga non è mai sufficiente a sbarcare il lunario. Di fronte a questo scenario socio-politico-economico, Prachanda si considera paladino dei poveri e propone un programma politico nato dalla fusione dell’esperienza della rivoluzione culturale cinese con quella del gruppo terrorista peruviano ‘Sendero Luminoso’.

Nel 1995 il reddito annuo pro capite ammontava a 180 dollari, con un tasso di mortalità infantile che toccava il 10 per cento, mentre il 71 per cento della popolazione continuava a vivere sotto la soglia di povertà. Le condizioni di vita variano notevolmente fra la capitale e i distretti. A Katmandu l’aspettativa di vita è di circa 70 anni, mentre nelle aree rurali si abbassa a circa 35 anni. Un recente rapporto di Amnesty International denuncia che la situazione nel Paese himalaiano è preoccupante: oltre alle violazioni dei diritti umani ad opera delle forze governative, si evidenzia una crescente incidenza di omicidi e torture da parte dei guerriglieri.

Tra gli abusi attribuiti ai maoisti, nel 1999, erano annoverati il rapimento e le percosse ai danni di membri di partiti politici tradizionali, come punizione, ad esempio, per aver partecipato alle elezioni locali. I circa 22 milioni di nepalesi che vivono disseminati sulla pianura Tarai, fertile e tropicale, gli altopiani centrali, coperti di pascoli e foreste, e i monti dell’Himalaia, dove si trovano le vette più alte del mondo, chiedono pace e giustizia.

BIRMANIA:

La Birmania, ex colonia britannica, ottenne l’indipendenza il 4 gennaio 1948, costituendosi come Unione Federale Birmana e il 18 giugno 1989 prese il nome di Myanmar. Il generale Ne Win, il 2 marzo 1962 con un colpo di stato prese il potere, instaurando una dittatura militare.

Nel 1988, dopo aver duramente represso le manifestazioni contro il governo, lasciando sul terreno più di tremila morti, una nuova giunta militare assunse il potere. Il Consiglio per il Ripristino dell’Ordine e della Legge dello Stato (SLORC) diede inizio a una durissima repressione, attuata per mezzo di torture, esecuzioni sommarie e arresti di massa contro gli attivisti politici. Due anni dopo indisse libere elezioni per la formazione di un’Assemblea costituente. La schiacciante vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia (Lnd), che riuscì a ottenere ben 392 seggi su 485, indusse però i militari a invalidare le elezioni e a mettere fuori legge i partiti e i movimenti d’opposizione, con il conseguente arresto di tutti i dirigenti della Lnd. La leader della Lega Aung San Suu Kyi, l’anno successivo fu anch’essa arrestata e quindi costretta per sei anni agli arresti domiciliari. Per la sua strenua lotta contro il regime militare di Yangon, nel 1991 ottenne il premio Nobel per la pace.

Il paese è allo sbando, sconvolto da 50 anni di conflitti interni, sia etnici che politici. I primi riguardano i movimenti indipendentisti delle etnie minoritarie Karen e Shan e Wa, contro cui il governo combatte commettendo genocidi e deportazioni di massa. La posta in palio qui è il controllo dei territori al confine con la Thailandia, ricchi di piantagioni d’oppio, e il controllo del narcotraffico. Solo dal 1996, quando la lotta si è intensificata, si contano migliaia di morti e centinaia di migliaia di rifugiati in Thailandia e Bangladesh. Drammatico il problema delle mine anti-uomo disseminate nelle zone di conflitto. Frequenti anche gli scontri al confine tra gli eserciti di Birmania e Thailandia, che accusa il governo di Yangon di essere pienamente responsabile del massiccio traffico di droga verso il proprio territorio.

Il 6 maggio scorso la cinquantaseienne Aung San Suu Kyi, dopo 20 mesi di arresti domiciliari è stata rilasciata, ma non sarà facile ottenere un sostanziale cambiamento politico in tempi brevi. Le confuse modalità della sua liberazione indicano che nessun accordo, per quanto riguarda la sua libertà di movimento e le attività politiche della sua Lnd, è stato firmato col governo militare del suo paese e questo potrebbe costituire un problema in un immediato futuro. Inoltre, l’attuale atteggiamento del regime non inspira fiducia sul suo impegno ad avviare una fase di transizione, che conduca il paese verso la democrazia. Molti birmani in esilio sono convinti che il governo non abbia intenzione di dividere il potere e che il rilascio di Suu Kyi sia legato al ripristino degli aiuti stranieri, necessari per risollevare l’economia del paese, danneggiata dalle pesanti sanzioni inflitte da parte della comunità internazionale a causa delle continue violazioni dei diritti umani e della partecipazione al traffico mondiale di eroina (di cui la Birmania è uno dei primi produttori mondiali).

Non poche e gravi insidie si annunciano per l’opposizione, logorata e sconfitta da arresti e minacce, sfociate in una diaspora degli esponenti più impegnati divisi tra dubbi e contrasti. Suu Kyi, dopo che la giunta militare birmana le ha permesso di riprendere le sue attività politiche, nella sua prima apparizione in pubblico, ha indicato, tra le priorità, la liberazione di 800 prigionieri politici dell’Lnd, tra cui 17 parlamentari eletti nel 1990, anno in cui vinse le elezioni in Birmania, ma i militari non le hanno mai concesso di governare. Suu Kyi, anche quando fu liberata nel 1995, dopo i sei anni di arresti domiciliari nutriva grandi speranze di portare la Birmania verso un processo di democratizzazione; presto però, andarono tutte deluse: le fu impedito di lasciare la capitale e il suo partito fu dichiarato fuorilegge. Stavolta potrebbe essere diverso, adesso, a differenza del 1995, c’è un processo politico in atto e la leader del Lnd è nel bel mezzo di questo processo e fino a quando ci resterà avrà bisogno dei militari, come loro hanno bisogno di lei. Gli osservatori ritengono che Suu Kyi ha accettato di negoziare con i generali perché non aveva altro mezzo per contrastare il loro potere, dal momento che tengono sotto controllo la popolazione da 14 anni, con uno dei più grossi eserciti dell’Asia e un’efficiente polizia segreta.

I birmani hanno una grande fiducia in Suu Kyi, ma consapevoli che il processo di riconciliazione non sarà breve, temono che anche stavolta si tratti di una falsa apertura da parte di uno dei regimi più repressivi dell’Asia.



Una rapido viaggio in africa
sabato, dicembre 8, 2007, 12:58 PM
Filed under: guerre dimenticate

da: www.nigrizia.t

 Uno spaccato delle guerre dimenticate dell’africa. Un viaggio nel continente nero di cui poco si sa. E’ un articolo un po’ datato, ma rende bene l’idea di quello che succede e di quello che è successo.

Liberia: dopo la sanguinosa guerra civile degli anni Novanta, è oggi colpita da una grave crisi politica, istituzionale e umanitaria. Gli scontri tra ribelli e forze governative hanno raggiunto nelle scorse settimane la capitale Monrovia. Il presidente Charles Taylor, accusato di crimini di guerra dalla Corte penale della Sierra Leone per aver sostenuto per anni la guerriglia del Ruf fornendo armi in cambio di diamanti, è colpito da un mandato di cattura internazionale. Bloccati in Svizzera i conti correnti suoi e dei suoi più fedeli collaboratori.

Eritrea: un paese già provato da una trentennale guerra d’indipendenza con l’Etiopia, colpito in questi anni da ricorrenti carestie: il 70% della popolazione sarebbe oggi a rischio fame. La nuova guerra con Addis Abeba (1998-2000) per la demarcazione dei confini, ha causato decine di migliaia di morti e centinaia di migliaia di profughi.

Sudan: per vent’anni l’aviazione governativa ha bombardato i villaggi, colpendo anche case, scuole, edifici pubblici, mercati e chiese. Le uccisioni di civili sono state pressoché quotidiane. Oggi è in corso l’ennesimo negoziato tra ribelli dello Spla e governo, apertosi alla fine del 2002 a Machakos (in Kenya). Oltre due milioni i morti di questa guerra, spesso a causa di carestie ed epidemie, mentre altri quattro milioni e mezzo di persone sono sfollati interni o rifugiati nei campi profughi dei paesi vicini.

Somalia: un paese ancora in mano ai “signori della guerra” che, spartitosi il territorio, gestiscono impunemente traffici vari. Il primo governo nazionale di transizione, nominato nel 2000, ha un autorità limitata, di fatto, ad alcune zone della capitale Mogadiscio.

Costa d’Avorio: un paese piegato dal colpo di stato del 19 settembre 2002 che ha bloccato una delle economie più floride del continente e spezzato in due il territorio. Oggi cerca un difficile cammino di riconciliazione, mentre la presenza – militare e diplomatica – della Francia si fa sentire.

Nigeria: dopo una storia di guerre civili, colpi di stato e leader autoritari e corrotti, il governo democratico del presidente Obasanjo, da poco rieletto, sta tentando tra imponenti difficoltà di gestire il problema violenza e la ripresa economica. I paradossi di una “guerra tra poveri” ancora insanguinano molte città del paese più popoloso d’Africa, importante produttore petrolifero.

Sierra Leone: il paese più povero del mondo è ricco però di diamanti, tra le cause di una guerra civile decennale durata fino al 2001. Almeno 50mila i morti, centinaia di migliaia i profughi, molti sopravvissuti che stentano a immaginare un futuro nel loro paese.

Repubblica democratica del Congo: migliaia le persone in fuga, in particolare dalla regione nord orientale dell’Ituri – ricca di minerali preziosi – dove si susseguono i massacri nonostante l’intervento delle forze di pace dell’Onu e dell’Ue.

Tra le altre “guerre dimenticate” con cui l’Europa unita dovrà presto fare i conti, quella in Uganda – dove la guerra dei ribelli dell’Lra sta trasformandosi in un lento genocidio delle popolazioni nilotiche che vivono nei distretti del nord. Su una popolazione di un milione e 400 mila abitanti d’etnia acioli e lango, circa 850mila sono sfollati e vivono all’addiaccio in condizioni umanitarie disperate per la mancanza di cibo e medicinali. E ancora in Burundi, dove sono quasi 50mila, solo nelle ultime settimane, i civili in fuga dai combattimenti in corso tra la ribellione e le forze governative…