IL FILO DI ARIANNA di TRIPLAG..il filo per non perdersi nella realtà


* Calabria: fotografia di una regione dimenticata
martedì, gennaio 29, 2008, 9:32 am
Filed under: cronaca

da repubblica.it

Lascia anche il magistrato antimafia
“Noi prigionieri di boss e massoni”

di ANTONELLO CAPORALE

Un cartello stradale con fori di proiettile a Mileto (Vibo Valentia)

È VIVA o morta la Calabria? “Attaccata al respiratore di una macchina mangiasoldi. Da deputato eletto a Catanzaro vedevo gente famelica starmi accanto, senza nessun senso del bene comune. Ho preso la valigia e sono tornato da dove ero venuto. Adesso sono consigliere comunale a Torino, eletto nella lista di Chiamparino”. Massimo Mauro, quindici anni nel pallone, racconta la sua disfatta politica: “Inadeguato nel ruolo, inconsapevole che quella terra ha una fame che le ruba dignità. Impossibile vivere a casa mia, impensabile continuare a fare politica lì”.

In Calabria il bene e il male sono l’uno addossato all’altro: “Per una cosa che fai buona ne guasti dieci. Sembra di raccontare storie dell’altro mondo”. Lo dice Agazio Loiero, il presidente di un governo regionale che più di una volta, per evitare i questuanti, e forse molto altro ancora, si è riunito in sedi diverse e anonime pur di non mostrarsi, non ricevere gente e non stringere mani. Ah, le mani… “La cosa veramente stressante – racconta Matteo Cosenza, direttore del Quotidiano di Calabria – è l’intreccio familistico. È continuo, ripetuto. In ogni occasione, qualunque sia la posta in gioco, la devianza sociale si manifesta attraverso questa suprema logica da clan”.

La Calabria conta due milioni di abitanti, lunga e stretta, montagne e mare. Non ha strade, non ha acqua, non ha industrie. “Aggiunga quell’altro che non ha: non ha uno scrittore affermato che la racconti, non ha una storia che l’abbia resa grande. La Calabria è la regione del senza: senza questo e senza quello. Comandano gli invisibili: massoneria deviata che guida le ali criminali della ‘ndrangheta. Collusioni vaste della politica che subisce, dell’imprenditoria che accetta il dominio perché la malavita forse presta capitali con tassi meno alti delle banche. Anche la magistratura a volte esibisce il volto del connivente e non del controllore”. Parla Salvatore Boemi, oggi è il suo ultimo giorno alla direzione distrettuale antimafia: “Da domani sarò retrocesso a sostituto. Così vuole la legge. Vent’anni di onorato servizio, non sono valsi a nulla. Devo tornare in corsia”.


È così capillare la disfatta e clamorosa la resa che anche i rimedi sono difficili da approntare. Da pochi mesi, finalmente, una persona degna, un ingegnere dalla moralità finalmente specchiata, guida la burocrazia che deve distribuire le risorse pubbliche, miliardi di euro, raccolti grazie all’aiuto straordinario dell’Unione europea. Si chiama Salvatore Orlando: “I soldi ci sono però non siamo in grado di utilizzarli. I piani di sviluppo sono buoni solo a caricare il bancomat. Ma poi è tutto un corri corri. La politica non ha qualità, e mostra tutto il suo disinteresse verso il bene comune”.

La clientela come centro motore dell’autoconservazione, i soldi come unico strumento a intercettare il consenso. I soldi in Calabria non servono a costruire ma a demolire. Un circuito dannato che nessuno ha la forza di spezzare. Ma quanto è lunga questa notte? Pippo Callipo ha un’azienda modello (trasformazione del tonno) nel vibonese che fattura 40 milioni di euro e dà lavoro a 200 persone.

Una personalità così forte da averlo proiettato alla guida della Confindustria regionale. Il suo furore contro la ‘ndrangheta e il malcostume politico gli è valso l’isolamento sociale: “Un imprenditore che si fa vedere con me passa non uno ma dieci guai. Però io resisto. La Calabria è viva, subisce il tradimento della sua elite ignorante e famelica. Lo Stato in Calabria chi lo conosce? La legalità dov’è? Dov’era la magistratura? Dove la polizia? Solo da due anni le cose sono cambiate. E i risultati si vedono”.

Il nome di Callipo è in campo per le prossime elezioni: “Sto pensando a un terzo polo. Dobbiamo fare qualcosa per resistere. Dobbiamo avere la forza di indignarci, di non avere paura. Con l’aiuto dello Stato aprirò altre due aziende, ho investito dieci milioni di euro proprio qui, nel vibonese. La Calabria non è popolata da mummie: adesso è il tempo di provare questa nuova avventura. Sarà un grande movimento di insubordinazione civile, l’unico possibile. Malgrado tutto quello che ho passato, l’unica cosa che voglio fare è non crepare dominato dal malaffare”.

Non crepare. Resistere. A Vibo Valentia come a Lamezia Terme c’è il più alto indice di sportelli bancari, la più elevata concentrazione di centri commerciali. Il sintomo di un’economia dopata da canali di approvvigionamento illegali. Eppure a Lamezia, la città posseduta dai clan, è stato eletto sindaco un uomo dal curriculum integro. Si chiama Gianni Speranza: “Non ho una maggioranza, non ho tessere, quel poco di potere l’ho ricevuto dal voto. Io lo spendo nelle piccole cose, ma è già tanto qui fare un marciapiede, tentare di pavimentare una piazza. Restare integro e convinto che, malgrado tutto, sei lì per servire. Lo so che fa un po’ ridere…”.



* La storia si ripete: pronta la nuova marcia su Roma
martedì, gennaio 29, 2008, 9:26 am
Filed under: politica

da repubblica.it

Piazze, adunate e cortei
il piacere di marciare su Roma

di FILIPPO CECCARELLI

Corteo fascista nel Ventennio

“Se non ottenessimo presto di andare al voto, milioni di italiani si riverserebbero a Roma…”. Toh, eccone un altro. Stavolta è Silvio Berlusconi l’aspirante marciatore su Roma, l’ultimissimo a coltivare questa secolare suggestione della domenica.

Milioni e milioni: il linguaggio dell’audience contro quello della realtà. Così, tanto per distendere il clima. Basta saperlo, comunque. Il penultimo a minacciare la marcia su Roma fu il suo alleato Umbertone Bossi. Cominciò nel 1992 e anche per lui l’enfasi numerica opportunamente sfondò il buonsenso e la legge sull’impenetrabilità dei corpi: “Non basteranno tutti i vagoni delle ferrovie”. Così quando qualche anno dopo, per andare finalmente a “bruciare il Colosseo” fu sufficiente un solo treno, con qualche ironia ribattezzato “Nerone Express”, il temerario proposito si risolse in una specie di surreale scampagnata.
In questo, e tanto più nel pieno di una crisi di governo, Roma funziona come magnifico fondale. Checché se ne possa pensare, i suoi abitanti hanno sempre un mucchio di cose dietro le quali correre e più di qualsiasi milionario riversamento di folle, i romani temono il traffico. Se questo si mantiene entro certi limiti, pur restando del tutto indifferenti ai contenuti delle periodiche invasioni, possono apparire perfino amichevoli. Con il che, dopo aver il senatùr Bossi annunciato che rispetto alla sua quella di Mussolini sarebbe apparsa “una cagatina”, il futuro ministro Castelli si potè fare una foto ricordo al Pincio, sulla statua dell’Alberto da Giussano, quello con lo spadone che Bossi aveva scelto come stemma della Lega, pare ispirato dal marchio delle bici Legnano.


Il punto è che Roma non solo si lascia felicemente minacciare, ma sembra nata per infuocare la fantasia di generazioni e generazioni di marciatori, pronti a essere a loro volta paralizzati, previo opportuno e sollazzevole sfiancamento, dalla Città Eterna. Da questo punto di vista, l’insofferenza elettoralistica di Berlusconi va commisurata alla tipica frenesia con cui di recente si è sforzato di sistemare attrici e attricette alla Rai, per giunta; come pure si accompagna all’ormai cieca inquietudine che porta il leader lombardo del centrodestra ad acquistare a prezzi pazzeschi curiosi cimeli da un congruo numero di astuti antiquari capitolini. Tipico, questo, di conquistatori compulsivi e replicanti. Ma la tentazione di arrivare qui alla guida delle masse, come si diceva, è quella.

E’ storia antica assai, uno sfolgorio di archetipi storiografici: ambiziosi generali imperiali, re gotici coperti di pelli, papi assennati o di provata malvagità, lanzichenecchi luterani ben disposti allo scontro di civiltà. “Cingimi o sole, d’azzurro, di sole m’illumina, o Roma”. Comunque qui tutti vogliono arrivare, compresi quelli che come il Cavaliere ci stanno già da un bel pezzo. A’ Cavalié! E arrivarono i frati zoccolanti, menacciutissimi peraltro, e un po’ zozzoni. I bersaglieri di La Marmora. I burocrati piemontesi. Le speranze laiche di Quintino Sella sulla erigenda capitale della Scienza, te la saluto.

E tuttavia per comodità di memoria “la marcia su Roma” resta quella di Mussolini, che infatti non vi partecipò, arrivando il giorno dopo in vagone letto. Era il 1922. Una mitragliatrice sulla torre di Ponte Milvio, sopra gli attuali lucchetti dell’amore. Fili spinati sulla via Flaminia. Sole che sorgi. Passa un lustro e gli impiegati dei ministeri rivendicano il diritto alla pennichella. Ne passano due e Leo Longanesi una domenica mattina intravede un conoscente in alta uniforme, camicia nera, fez, mostrine col teschio, pugnale, stivaloni e un vassoio di pastarelle, con frivolo nastrino ciondolante sul dito mignolo.

Sono immagini perfino note. Una ispirazione. Un’attitudine. Un andazzo. Figurarsi una richiesta di elezioni. Al principio degli anni novanta, giusto il giorno dell’anniversario della presa di potere del futuro Duce, il giovane Fini si trovò pure lui a guidare qualche migliaia di scalmanati e nostalgici convenuti da tutta Italia sotto lo storico balcone. Saluti romani. Pioveva e questo non aiutava la viabilità, che in questi casi diventa il problema dei problemi.

“Se non otteniamo il voto – insiste Berlusconi – credo che milioni di persone andranno a Roma”. Mai una volta che si resista alle sirene della dismisura, sempre ci si abbandona alla sindrome del numero che si moltiplica. Eppure non erano tantissimi i soldati americani che arrivarono a liberare l’Urbe sui loro giganteschi tanks, gettando pane, carne in scatola, caramelle e sigarette. Né mai furono milionarie le folle che nel corso del tempo si sono via via rovesciate per le vie della capitale per le loro indispensabili “marcette” provvisorie e tematiche: i Col diretti dopo le manifestazioni, con i loro cestini, i loro “fagotti”, sui prati davanti al Colosseo; i metalmeccanici con i fischietti e i tamburi che negli anni settanta diedero la sveglia a Enrico Berlinguer (Forattini lo raffigurò in vestaglia, i capelli imbrillantinati, una tazza di tè in mano: vignetta che fece scandalo nel mondo comunista, cui diede voce lo storico Paolo Spriano).

E poi i vari movimenti giovanili, i pensionati, i pacifisti arcobaleno, gli alpini, i fedeli di Padre Pio e quelli del Beato Escrivà, i pellegrini dell’Anno Santo e quelli del Papa morente, i gay del Pride, i Family Day.
Tutti sempre a marciare su Roma, città fatta per essere attraversata. In lungo e in largo il popolo berlusconiano l’ha percorsa già due o tre volte, le telecamere sugli elicotteri, le polemiche sulla diretta. La crisi di governo e il richiamo preventivo alla piazza televisiva. La crisi di sistema e la fatica di ritrovarsi ogni volta al punto di partenza.